Cosa si è spezzato? A proposito di vita e eutanasia

La riflessione del medico palliativista

Parole chiave: vita (45), morte (35), dolore (8), eutanasia (10)
Cosa si è spezzato? A proposito di vita e eutanasia

Che cosa resta, oltre ad una profonda e autentica «compassione» nel senso umano prima ancora che etimologico del termine, dopo aver letto l’articolo de «La Stampa» dell’8 marzo 2016 che descrive in ogni suo passaggio l’eutanasia di una donna torinese avvenuta in Svizzera verosimilmente poche ore prima?

 «L’infermiera svizzera usa le parole con parsimonia professionale. «Come preferisce assumere il farmaco?». (...). Qual è l’alternativa? «Può berlo, oppure posso farle una flebo». (...) «La flebo». L’infermiera le fa firmare un foglio e si allontana. «Vado a Lugano, compro il farmaco e torno». È il penultimo atto del rapido protocollo dell’eutanasia. «Un minuetto preciso, apparentemente pulito - un accordo tra adulti consenzienti - che consegna ogni singola responsabilità legale e morale a chi ha scelto di morire, vietato in quella prateria bruciata dei diritti individuali che è ancora il nostro Paese... ».

Non so per quale risonanza, ma il primo pensiero è andato ai miei maestri laici del liceo (veri intellettuali marxisti, atei o agnostici), che ci hanno formati ai valori della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, redatta dopo il processo di Norimberga a tutela della dignità dell’essere umano in quanto tale (indipendentemente da sesso, età, razza...condizione di salute...) .

Che cosa avrebbero detto in realtà ovviamente non lo so, e mai mi permetterei di attribuire ad altri pensieri nati semplicemente da una violenta suggestione immediata («un pugno dello stomaco», a dire il vero...). Probabilmente qualcosa avrebbe detto Norberto Bobbio, che l’8 maggio del 1981 al Corriere della Sera dichiarava: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il ‘non uccidere’. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l’onore di affermare che non si deve uccidere». Altri tempi? Certamente un’altra visione della società. Oggi invece sembra che anche solo prospettare che esista un’altra possibilità, o interrogarsi sulla frammentazione antropologica che conseguirebbe alla legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito, rientri  nella «prateria bruciata dei diritti individuali che è ancora il nostro Paese».

Eppure un’altra possibilità esiste... Lo sanno le migliaia e migliaia di famiglie i cui congiunti, almeno negli ultimi trent’anni, sono stati seguiti dalle cure palliative. Lo sanno i malati e le loro famiglie, sono centinaia solo in una città come Torino, che anche in questi giorni e ogni giorno, a casa o in Hospice, riceveranno assistenza, cura, accompagnamento, calore umano, reciprocità.  Ce lo hanno «detto» i malati che sono morti dignitosamente e senza dolore nella propria casa o in Hospice, trovando (a volte nelle ultime settimane o negli ultimi giorni) spazi di vita anche alla fine della vita, forse proprio perché «alla fine della vita». Alcuni, li abbiamo conosciuti, giunti in Hospice –di cui ignoravano l’esistenza- solo perché gratuito, essendo troppo caro il «viaggio in Svizzera». E quanto sono state preziose -per loro e per noi- quelle ultime settimane, sorprendenti e inattese.

Forse tutto nasce dall’incontro degli sguardi, dal sentirsi guardati come persone «intere», «vive», dopo la frammentazione degli esami e delle terapie per curare gli organi malati.  E questo non sarebbe possibile, nell’incontro quotidiano, se in un angolo remoto della nostra testa ci fosse spazio per l’ipotesi anche solo teorica di poter «uccidere per pietà». Per questo le cure palliative, laicamente, si collocano con forza contro qualsiasi forma di accanimento terapeutico, combattono la sofferenza anche con interventi sedativi profondi condivisi con il paziente e con la famiglia, ma –pur con profondo rispetto e vicinanza per la disperazione da cui nasce la richiesta di eutanasia da parte di un malato, che mai deve essere lasciato da solo e che sempre deve trovare uno spazio relazionale in cui poter esprimere la sua domanda di aiuto - affermano con altrettanta decisione che l’eutanasia non è la risposta, e ritengono che la legalizzazione sarebbe una sconfitta dei più deboli, e non una forma di progresso e di civiltà.

In Francia, in Germania, nel Regno Unito un lungo e serio dibattito fra tutte le parti sociali e politiche ha portato a scelte condivise, di civiltà, di accompagnamento ai morenti, anche confermando a livello giuridico la legalità di decisioni eticamente impegnative nei casi limite, ma dichiarando ancora una volta il divieto dell’eutanasia. Perché in Italia si deve ridurre sempre la discussione bioetica al triste teatrino «Laici contro cattolici»? Forse in questo tutti dobbiamo fare un esame di coscienza, ogni volta che nei nostri gruppi, nei nostri forum o nei nostri incontri si è partiti da posizioni di «trincea». E ancora di più quando abbiamo «denunciato», «condannato», «stigmatizzato» invece che sostenere concretamente, per esempio, gli sforzi di chi già tanti anni fa nel silenzio lavorava accanto ai malati e magari sognava la nascita di Hospice ispirati da una visione cristiana dell’uomo, in cui ognuno, indipendentemente dal credo religioso, potesse trovare un tempo di dignità, in un clima in cui la «presenza» del divino fosse trasmessa con la vita e non con le parole. Perché, come suggeriva Benedetto XVI «nella malattia, abbiamo tutti bisogno di calore umano: per confortare una persona malata, più che le parole, conta la vicinanza serena e sincera».

Gigi Ghirotti, che cambiò la percezione della malattia oncologica nell’Italia degli anni ’70, raccontando il suo «Viaggio nel tunnel della malattia», scriveva: «(…) qualcosa è accaduto nell’arte di organizzare le comunità: si è perduta per la strada qualche conoscenza tecnica oppure, peggio, siamo andati paurosamente indietro nel costume, e cioè nel modo di concepire il rapporto tra la società efficiente e i suoi membri impediti, malati, emarginati e tutti coloro che non sono in grado di far valere, lì, subito e con forza, le proprie ragioni?».

E nell’ultimo articolo, uscito postumo un mese dopo la sua morte: «… Prima e più che sugli enti inutili, sugli enti locali, sulle piccole e medie industrie la stretta creditizia preme e strozza il più debole. Non è una novità...».

 Cicely Saunders, fondatrice delle moderne cure palliative, scriveva nel 1993: «Dovesse passare una legge che permettesse di portare attivamente fine alla vita su richiesta del paziente, molti dei ‘dipendenti’ sentirebbero di essere un peso per le loro famiglie e per la società e si sentirebbero in dovere di chiedere l’eutanasia (…) ne risulterebbe come grave conseguenza una maggiore pressione sui pazienti vulnerabili per spingerli a questa decisione, privandoli così della loro libertà…».

 Di libertà e diritti umani, in fondo, stiamo parlando. Questa credo debba essere la nostra parte, di credenti, in questo periodo storico frammentato: ripetere come Terenzio »Sono un uomo, e nulla di umano ritengo estraneo a me», ed entrare in ogni spaccatura e sofferenza senza «voltare la testa dall’altra parte», a volte semplicemente con il nostro «stare», a volte chiedendo con rispettosa decisione di aprire un dialogo e prospettare che un’altra via, profondamente umana, è possibile.

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