Corruzione, classifiche, università: una riflessione

Una riflessione del direttore della pastorale universitaria sulle recenti dichiarazioni di Raffaele Cantone sulla fuga di cervelli dalle università

Parole chiave: cantone (1), università (76), pastorale universitaria (11), corruzione (18)
Studentesse al Campus Einaudi

A Raffaele Cantone stiamo chiedendo un po’ tutti di tutto, bisognosi come siamo di avere un padre della Patria che ci aiuti a leggere il presente e, soprattutto, ad uscirne non troppo male. Ed anche sui temi universitari il presidente dell’Anticorruzione si è recentemente espresso durante il convegno dei responsabili amministrativi degli atenei italiani, sostenendo il legame tra corruzione e fuga di cervelli dalle università italiche. Certamente il nostro Paese non brilla sul tema della corruzione, o meglio brilla anche troppo, ma, come alcuni commentatori hanno fatto rilevare, forse il punto non è necessariamente quello sottolineato da Cantone. Le baronie sono odiose, ma non è questo, a mio giudizio, il vero cancro che sta uccidendo il nostro sistema universitario.

Provo a proporre un diverso approccio, anche sulla scorta del lavoro che si sta facendo in diocesi in seno all’Agorà del Sociale. Mi pare che lo sguardo sul mondo universitario, oggi, sia parzialmente scorretto. L’università del passato aveva ben presente l’obiettivo di difendersi dal potere regio e politico in generale. Non troppi decenni fa là dove oggi c’è il Rettorato a Torino morirono diversi studenti per difendere tali prerogative. Oggi l’Università dovrebbe guardarsi da altro, ma identico pericolo: la dittatura economica. Viviamo un tempo in cui il ministro delle Finanze è sempre più importante di quello dell’Istruzione o di Grazia e Giustizia. La qualità della didattica si misura con parametri di fatto economicistici, ed il tema che anche i giovani sbandierano è sempre e solo quello, pur sacrosanto, del diritto allo studio ridotto in termini di accesso economico all’istruzione. All’università si chiede di formare gente che sa fare, che sia professionalizzata, che sia pronta per il mercato del lavoro. Ma siamo così certi che questo voglia il mercato del lavoro e che questo al mercato del lavoro faccia bene?

Penso piuttosto che il compito dell’Università sia quello di educare al pensiero, scientifico, umanistico, tecnico ed al confronto tra le parti, non ai rapporti di forza tra esse. L’orientamento universitario non vocazionale, cioè non costruito a partire dai talenti e dalle capacità, dai sogni e dalle speranze, ma unicamente centrato sul posto fisso, è un sostanziale fallimento. Lo è per i giovani, che studiano ciò che non li appassiona, lo è per il mondo del lavoro che si trova sempre di più davanti persone incapaci di rispondere effettivamente ai bisogni, pur in possesso di credenziali ottime, ma sulla carta o alla carta. Non propongo di affidarci all’utopia, conscio che i bilanci per definizione pesano, propongo invece di ripensare i nostri modelli concreti di orientamento, di didattica e di ricerca a partire dalla cultura italiana che condividiamo e che ci appassiona, che è parte del nostro dna. Quella cultura classica che ha fatto grande un paese senza risorse naturali e la cui unica risorsa, da sempre, è stato il pensiero e la relazione. Importare modelli didattici ed universitari da altrove, penso al mondo anglosassone, non ci fa del bene, non per campanilismo becero, ma perché non si adatta al nostro essere italiani, con tutti i pregi che questo significa.

Non costruiamo una università modellata sui parametri delle classifiche, costruiamo una università sulle basi solide della nostra storia, questo ci rende vincenti, competitivi e capaci di espellere la mediocrità che genera arroganza, vera piaga del nostro sistema. Il percorso che abbiamo imboccato rischia invece di legare l’università a modelli che favoriscono politiche poco profetiche e di breve periodo: la corruzione da combattere è oggi più nel pensiero che nelle persone.

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