Caritas nelle carceri «dietro le sbarre si salvi la dignità»

Un appello alla necessità di preservare l'umanità dei detenuti

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Caritas nelle carceri «dietro le sbarre si salvi la dignità»

Rivolte ripetute nelle carceri brasiliane, che hanno avuto come conseguenza «il più vasto e orribile massacro» del sistema carcerario regionale, secondo il pensiero espresso dal segretario alla Pubblica sicurezza dello stato di Manaus. Ma anche la ferma voce di Papa Francesco che sollecita: «gli istituti  penitenziari siano luoghi di rieducazione e di reinserimento sociale, e le condizioni di vita dei detenuti siano degne di persone umane».

Segnali lontani con riflessi vicini colti da più d’un consigliere regionale o comunale, tanto da indurlo a recarsi in visita alle nostre carceri per valutare le condizioni di vita di chi vi è detenuto, italiano o straniero, colpevole o ancora in attesa di giudizio. Il carcere è da sempre un quartiere dimenticato della città. Se ne occupa chi vi è preposto con qualche volontario e ministro di culto, quelli che in gergo sono chiamati «articoli 17 e 78». Non essendoci sui media torinesi cronache di fatti gravi ce ne facciamo una ragione sufficiente per non pensarci più. E se anche potesse emergere che al di là del muro di recinzione la vita quotidiana sia costellata di privazioni poco rispettose della dignità umana, ci tranquillizzeremmo pensando che la punizione è utile alla redenzione. E lo è se non viene vissuto come vendetta ma come correzione. Ma per un carcerato la punizione consiste nella privazione delle libertà personali, non nel rendergli la vita uno slalom tra ostacoli di ogni genere: parola di Costituzione italiana.

Il sovraffollamento del carcere non fa parte della pena e, ancor meno, del percorso di reinserimento. L’attesa esageratamente prolungata di essere giudicati per un fatto di cui si è accusati, l’estrema difficoltà a vivere la relazione profonda con i propri cari soprattutto quando questi vivono al di la del Mediterraneo, le levatacce in piena notte per venire spostati di cella senza alcun apparente motivo, l’essere trattenuti solo perché non in possesso di tutti i documenti necessari al soggiorno nel Belpaese, la lunghissima litania di «domandine» per ottenere il farmaco antidolorifico o la pur necessaria carta igienica non fanno parte della pena. Diventare «proprietà dello Stato per un certo numero di anni», come testimoniò un carcerato torinese a Benedetto XVI durante un incontro della Caritas, non fa parte né della pena né della necessaria restituzione verso la società offesa dal reato. Sono cose che non riabilitano la persona.

È dentro la prospettiva opposta, profondamente mana ed evangelica, ancorata al diritto e non figlia di superficiale buonismo, che si muovono le tante iniziative della fraternità interna ed esterna al carcere. A fondamento del percorso riabilitativo c’è necessità urgente di curare la prospettiva del dialogo tra culture e fedi differenti, collocate quasi a caso dall’assegnazione dei posti nelle sezioni e nelle celle. La significativa presenza di carcerati provenienti da altri contesti territoriali pone a chi si occupa di loro – ma anche alla società e alla Chiesa – la questione della capacità di superare le singole posizioni culturali di partenza, rette dall’assioma più o meno dichiarato secondo cui non avremmo nulla da imparare perché abbiamo già tutte le risposte. Riconoscere l’altro come persona e rispettarla in quanto tale, pur nella sua dignità «rinchiusa in carcere» è la strada per progettare vero reinserimento.

Citare il termine dialogo pensando al carcere, luogo della istituzionalizzazione massima di una persona, lascia molti perplessi. Ma, se perseguito con impegno, sincerità, conoscenza e competenza può diventare attore efficace di cambiamento e di sviluppo. L’obiettivo non può essere quello di attrarre a sé l’altro, convincendolo che la propria sia la strada migliore - ivi compresa quella delle convinzioni etiche e religiose - ma è capacità far emergere ciò che l’altro ritiene importante, ciò che costituisce il suo mondo interiore per coglierne il filo rosso che ci lega. Il dialogo si realizza anche grazie alla presenza di qualcuno che sappia farsi mediatore di culture, figura ad oggi praticamente assente dal panorama carcerario.

È per approfondire queste prospettive che pochi giorni fa la garante per i diritti dei detenuti della Città di Torino, Monica Gallo, ha lanciato l’idea della creazione di uno spazio interno alla Casa Circondariale dedicato al silenzio, alla riflessione, alla preghiera cui tutti possano accedere. Non si tratta di erigere una cappella laica, quanto di offrire uno strumento concreto per favorire l’emersone della dignità di quei fratelli. Fuori dal recinto ci sono altre iniziative simili, che vanno studiate e approfondite per farne strumenti di abbattimento del pregiudizio, vera priorità educativa e culturale.

Nel campo della giustizia minorile, ad esempio, la logica del dialogo è stata vincente proprio nella nostra città dove tanto si è lavorato e pensato a partire dai minori più fragili, italiani e soprattutto stranieri. Ancora oggi a San Salvario come a Porta Palazzo sono migliaia i ragazzi e i giovani accolti, accompagnati, inseriti in svariate attività da volontari che li hanno letteralmente strappati o dalla reclusione o dalla concreta possibilità di sperimentarla.

Il carcere è uno spudorato microcosmo della società che lo circonda. Sperimentare tra le sue sbarre percorsi di dialogo umanizzante è modo concreto per rendere più umana la società intera. E questa è cosa che interessa tutti, specialmente i discepoli di quel Gesù che è venuto per liberare ogni persona dalle proprie schiavitù.

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