Non puoi pagare il pranzo? Fai il volontario

Ristoranti – dall’Australia  a torino  

Parole chiave: esperienza (1), storia (31), volontariato (24), economia (65), comunione (8)
Non puoi pagare  il pranzo? Fai il volontario

La ferocia della guerra civile in Sri Lanka, che dal 1983 al 2009 ha causato più di centomila vittime. Poi, diciassette anni fa, l’arrivo in Australia insieme ad altri connazionali scappati dalla violenza deflagrata nel proprio Paese d’origine. E l’inizio di una nuova vita, a Melbourne, aggrappata ad un progetto innovativo e solidale finanziato con 15 mila euro derivanti dalla vendita di tipici capi d’abbigliamento femminili cingalesi: un ristorante vegetariano, aperto a tutti. Anche a chi, per difficoltà economiche, non può pagare il conto.

Una storia appassionante, quella di Fernando Shanaka, 49 anni, fondatore di «Lentil as anything» (letteralmente «Lenticchia come niente»), la catena di ristoranti australiani (nel frattempo sono diventati quattro, di cui uno a Sidney), in cui non c’è una tariffa fissa, si paga quello che ci si sente di sborsare. Un’idea vincente, all’insegna del «no profit», che oggi, dice Shanaka, «sforna mille pasti al giorno e vede seduti alla stessa tavola clienti abbienti e commensali poveri. I nostri locali sono luoghi di aggregazione sociale e culturale: come ripete spesso Papa Francesco, la solidarietà ha bisogno di umanità». A chi non è in grado di metter mano al portafoglio, dopo aver pranzato o cenato, i Lentil restaurant (che non beneficiano di alcun contributo governativo) offrono in cambio la possibilità di partecipare alle tante attività della catena, facendo il volontario in uno dei centri, lavorando la terra, impiegando il proprio tempo nelle cascine del gruppo.

Questa esperienza, ora, potrebbe prendere forma in Italia. E Torino potrebbe essere la prima città. «Un amico sotto la Mole, Antonio Rava, ci conosce e ci stima», conferma Shanaka, «grazie al suo impegno stiamo cercando di far partire il primo Lentil restaurant italiano».

Perché proprio Torino? «Perché questo progetto può contribuire a rinsaldare lacerazioni sociali e diseguaglianze di cui Torino soffre, come altre città, e poi perché il cibo, nel vostro Paese, è una delle testimonianze culturali più condivise».

Il progetto, per ora, è al grado zero. Non c’è ancora nulla, né i fondi («per avviare l’iniziativa servono 150 mila euro»), né una sede («la nostra priorità sarebbe la Cavallerizza»), né, tantomeno, il personale (40 persone in tutto, con tre professionisti, lo chef, il vicecuoco e il direttore di sala, gli altri volontari). Tra tante difficoltà, anche quelle di natura fiscale («non emettere uno scontrino, nel caso di chi non può pagare, consente di rispettare le normative in materia?»). Unico punto fermo, la volontà di aprire il locale in centro, in zone popolate da giovani. Con la consapevolezza, maturata da uno studio condotto sui locali australiani, che per ogni dollaro versato al ristorante c’è un ritorno di 5,8 dollari fatti risparmiare allo Stato. Un motivo in più, anche da noi, per dare slancio al progetto.

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