Libia, un milione di profughi nell'inferno dei lager

Dietro al calo degli sbarchi, il dramma dei nuovi schiavi e il buco nero delle prigioni clandestine

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Calano gli arrivi dei profughi dalla Libia. Ad agosto gli sbarchi sulle nostre coste sono stati poco più di 2.800 contro gli oltre 10 mila dell’anno scorso. Meno 72 per cento. Lontano anni luce da quei due giorni di giugno, 27 e 28, nei quali di profughi ne giunsero 10 mila, su venticinque navi, che sbarcarono quasi contemporaneamente. Segno che l’accordo italo-libico, voluto dal ministro dell’Interno Minniti e sostenuto anche dall’Unione europea, sta funzionando.

Pochi raccontano, però, che il Piano Minniti per fermare le partenze ha prodotto i suoi primi effetti «intrappolando» centinaia di migliaia di migranti subsahariani, e non solo, nei confini del Paese nordafricano. Tra i primi a lanciare l’allarme, il quotidiano «Avvenire», che domenica scorsa ha titolato: «Ecco l’inferno libico: un milione di profughi in trappola». E nei réportage che sta pubblicando dai primi giorni di settembre, denuncia: «Il buco nero delle prigioni clandestine ha numeri da Terzo Reich».

Ma chi sono «i nuovi schiavi del 2017»? Chi gestisce la tratta dei migranti africani? Quale ruolo gioca la Guarda costiera libica, sulla quale è in corso un’indagine della Corte dell’Aja? Chi garantisce sul rispetto dei diritti umani? Chi racconta quegli abissi di sopraffazione e di dolore? Secondo fonti locali libiche dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per i migranti, sono circa 400 mila i profughi contati dalle autorità di Tripoli, «ma stime ufficiose fanno oscillare il numero tra gli 800 mila e il milione». Non solo. «I centri di detenzione sotto il controllo del governo e dei sindaci che hanno firmato l’accordo con l’Italia sono una trentina, con non più di 15 mila persone». Da qui l’allarme lanciato dal quotidiano dei vescovi italiani.

Le denunce erano partite dalle Organizzazioni non governative - Medici senza frontiere, Amnesty international in testa - già prima dell’estate: i centri di detenzione per migranti sono gestiti da milizie irregolari, in combutta con trafficanti che gestiscono le traversate. I porti della tratta hanno un nome - Sabratha, Motred, Zawiya - e raccontano storie di ordinaria sopraffazione. Gironi infernali in cui finisce, tra violenze e soprusi, non solo chi arriva a Tripoli per tentare il salto in Europa, ma anche immigrati che vivono regolarmente da anni in Libia. Da qui, i dubbi delle Ong sulla possibilità (e opportunità) di stipulare accordi con un Paese diviso in tante parti quante sono le milizie che lo governano e in forte difficoltà a garantire il controllo del territorio, per non parlare dei diritti umani.

Il ministro Minniti ha invece firmato il Piano con il premier libico Al Sarraj e 14 comuni, e ci ha messo anche la faccia. Domenica 3 settembre ha assicurato che le agenzie dell’Onu per migranti e rifugiati, rispettivamente Oim e Acnur, sono in condizioni di verificare ciò che accade nei centri di accoglienza libici. È una buona notizia. Ma chi controllerà gli altri campi non ufficiali gestiti da questo e quel signore della guerra o trafficante di essere umani?

A rispondere ancora «Avvenire» con un lungo réportage da Zuara, al confine con la Tunisia. «La prigione è un rettangolo non più grande di un campo dal calcio». Da una parte, ci sono gli stanzoni dei migranti. Dall’altra, il piazzale con enormi serbatoi pieni di nafta da vendere ai contrabbandieri. Gli stessi che poi raccontano di torture, stupri, sopraffazioni. «Le finestre degli stanzoni dei migranti sono coperte, ma le urla e i pianti dei bambini quelli nessuna barriera li può fermare». Come nessuna barriera potrà mai fermare le migliaia di uomini, donne e bambini in cerca di un futuro migliore.

L’Unione europea, dicono le organizzazioni non governative che ogni giorno salvano vite umane, dovrebbe occuparsi meno di tenere i migranti fuori dalle sue frontiere e concentrarsi di più sulla messa a disposizione di percorsi legali e sicuri per chi è intrappolato in Libia e fugge da guerre, fame e povertà.

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