Mirafiori, spiragli di luce per l'antica fabbrica

Lunedì 7 settembre 2015 è una data a suo modo storica per Torino

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Mirafiori, spiragli di luce per l'antica fabbrica

Lunedì 7 settembre 2015 è una data a suo modo storica per Mirafiori e per i torinesi. Dopo cinque anni di cassa integrazione – a carico dello Stato, cioè dei cittadini – si mette in moto la linea produttiva del suv Maserati. I cassaintegrati sono circa 3.000 – nel 2010 erano oltre 5.500 – e 1.500 lavoreranno sulla linea Maserati. Per assorbirli tutti serve un’altra linea di produzione: potrebbe essere il suv Alfa Romeo.                 

Settantasei anni fa il 15 maggio 1939 il nuovo stabilimento Fiat a Mirafiori è inaugurato dal duce. Uno stabilimento titanico dopo il raddoppio del 1956-58: tre milioni di metri quadrati, per metà coperti, che potrebbero contenere 1 milione e 200 mila persone; l’officina centrale lunga quanto via Roma; 37 porte; 10 chilometri di mura, 40 di catene di montaggio, 223 di convogliatori aerei, 10 di gallerie sotterranee, 15 di binari ferroviari, 3 di piste di prova.                                                                      

È la più grande fabbrica d'Europa, più ancora della Volkswagen di Wolfsburg. Cittadella protetta da mura invalicabili: 100 ettari un tempo ai margini della città; 22 mila operai impiegati e due anni di lavoro a tappe forzate; 180 milioni di lire di spesa. Nel 1939 la Fiat produce 53 mila auto­mobili, occupa 57 mila dipendenti, ha un fatturato di 2 miliardi di lire. L’ingegnere torinese Vittorio Bonadè Bottino progetta una struttura in orizzontale anziché su piani sovrapposti come il Lingotto. Fino agli anni Ottanta del XX secolo Mirafiori ha 55 mila addetti (su 65 mila dipendenti), che lavorano in tre turni notte e giorno.                                                                                                              

Quel 15 maggio Mussolini comincia malissimo perché si presenta a bordo della concorrente Alfa Romeo facendo imbufalire padroni, dirigenti e maestranze. Torino manifesta indifferenza per il dittatore con un’accoglienza ancora più glaciale di quella del 23 ottobre 1932 quando parlò agli operai del Lingotto. E dire che il senatore Giovanni Agnelli e il professor Vitto­rio Valletta precettano le migliaia di dipendenti e che le note informative della polizia segreta fascista avrebbero dovuto indurlo a maggiore cautela. Dal piazzale, vicino alla pista di collaudo, non si leva alcuna ovazione per il duce, che ha a fianco Agnelli e Valletta, i dirigenti Fiat, le guardie del corpo, i gerarchi. Su tutti vigila Achille Starace, segretario del Partito fascista e comandante della Milizia. Tutti in camicia nera.                                                   

Prigioniero di una retorica che gli impedisce di valutare uomini e situazioni, Mussolini esordisce con un attacco infelice per il tono e il contenuto: «Lavoratori della Fiat! Non mi soffermerò sui problemi economici, perché ho già avuto modo di esporli nel mio recente discorso di Milano... ». Pausa in attesa dell’ovazione che non arriva. Commette un’altra un’imprudenza: «Ve lo ricordate voi?». Silenzio cimiteriale. Perde il controllo e urla: «Se non lo ricordate, rileggetelo». Abbandona il palco per alcuni istanti ma vi ritorna, spinto da Starace, a salutare romanamente la massa di in­fedeli. Dopo il discorso, se ne va in una nuvola d’ira. La se­ra in albergo qualcuno lo sente borbottare: «Torino, porca città!».                                                  

Durante la guerra Mirafiori è gravemente danneggiato dalle bombe e i sotterranei sono usati come rifugio antiaereo. La Fiat costruisce in Italia e all’estero – in tutto o in parte, anche tramite aziende associate, affiliate e con l’indotto – auto, autobus, filobus, tramvai, autotreni, furgoni, trattori, treni, macchine sollevamento terra, grandi motori per navi, aerei militari, carri armati, cannoni, camionette, veicoli per trasporto truppe, frigoriferi e altri elettrodomestici; produce ferro, acciaio, ghisa, metalli, plastica, vetro e altri componenti. Gli Agnelli si occupano di finanza, assicurazioni, autostrade, infrastrutture, edilizia, supermercati, giornali, editoria e altro ancora. Un colosso, di tutto e di più.                                                                                               

In pochi anni la Fiat di Vittorio Valletta e dal 1966 di Gianni Agnelli realizza a Torino e nella sua cintura la più grande concentrazione industriale d’Italia con «operai ottimi, magnifici e bravi», come dice Valletta che usa il pugno di ferro contro sindacati e comunisti: scioperi osteggiati, sindacalisti «marcati stretti» – suggerisce il «sindacato giallo» filopadronale –, operai e attivisti del Pci e della Fiom-Cgil avversati e relegati nei «reparti confino» come l’Officina 24.                                           

Dal 1955 esplode il «miracolo economico». Le città del Nord – specie il triangolo Genova-Milano-Torino («Gemito») – si gonfiano e le campagne si spopolano: dal 1955 al 1971 in Italia si spostano 9 milioni e mezzo di persone. Al censimento del 1951 siamo 47 milioni e 518 mila, tre anni dopo 50 milioni e mezzo. Un Paese sano e giovane.                                                                                                                        

 La casa, l’automobile, il televisore e il frigorifero sono i grandi sogni. La Fiat è in fortissima espansione per 30 anni. Con le sue utilitarie – piccole, squadrate, spartane, a buon prezzo e «risparmiose» – fa sognare e viaggiare gli italiani. Negli anni Cinquanta produce 50 mila auto l’anno che si impennano a 430 mila negli anni Sessanta. Ogni decennio inventa un’auto di grande successo: negli anni Quaranta la  «Topolino», negli anni Cinquanta la «600», la «500» (Sessanta), la «127» (Settanta), la «Uno» (Ottanta), la «Punto» (Novanta), la «Panda» (Duemila), «500» (Duemiladieci).                                                                                                              

La Fiat spadroneggia alla grande e trasforma Torino in una città-caserma dove sorgono anonimi quartieri-dormitorio e squallide periferie-satelliti. Ha bisogno di tanti lavoratori robusti, infaticabili e disciplinati e li fa arrivare con un esodo senza precedenti. Nel 1946 arrivano 33 mila immigrati; negli anni successivi 20 mila ogni 12 mesi. Nel 1955 la popolazione aumenta di 89.991 unità e raggiunge gli 805.984 unità. La punta massima degli arrivi è nel 1961 con 75 mila, che fa superare al capoluogo il milione di abitanti e le consente di fregiarsi del titolo di metropoli. Nel 1974 tocca il record di 1.202.846 abitanti.                                                                                                          

Dagli anni Settanta del XX secolo la Fiat delocalizza al Centro-Sud e all'estero - Russia, Brasile, Polonia, India, Turchia, Argentina - e penalizza l'area piemontese. Aprono gli stabilimenti di Cassino (Frosinone), Pratola Serra (Avellino), Termoli (Campobasso), Val di Sangro-Archi (Chieti), Termini Imerese (Palermo), Melfi (Potenza), Pomigliano d’Arco (Napoli). Chiudono Lingotto e Lancia a Torino, Chivasso (Torino), Verrone (Biella), Rivalta (Torino), Desio e Arese.                                                                                                                     

Per decenni la Fiat munge dalle casse dello Stato. Secondo l’Associazione artigiani e piccole imprese (Cgia) di Mestre sono 7,6 miliardi di euro gli aiuti erogati dallo Stato alla Fiat dal 1977 al 2009, ai quali corrispondono 6,2 miliardi di investimenti fatti dalla Fiat. Gli aiuti più consistenti negli anni Ottanta quando tutti i Governi sostenevano massicciamente le case automobilistiche nazionali: solo per costruire Melfi ottiene 3.300 miliardi di lire dallo Stato.                                                             

Dentro a Mirafiori e davanti ai suoi cancelli si scrive buona parte della storia politica, economica e sociale torinese, e non solo. L’«autunno caldo» del 1969 segna una svolta radicale. Come anche nel settembre-ottobre 1980 lo sciopero di 35 giorni e la marcia dei 40 mila quadri.                                                                                         

«Agnelli, l'Indocina ce l'hai nell'officina» grida il primo corteo interno a Mirafiori, il 27 maggio 1969, sotto lo sguardo allucinato dei «guardioni». Simbolo e icona del capitalismo italiano, all'Av­vocato si dedicano più «gridi di guerra» che al Che Guevara, più caricature che ad Andreotti, più minacce che ad Almirante, giovanotti con barbe e capelli lunghi salgono sui mezzi pubblici gridando: «Paga Agnelli».                                        

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