Jobs Act, graziato dalla Consulta. Ma funziona o no?

La bocciatura dell'Art. 18, Voucher e appalti sullo sfondo una crescita che non procede

Parole chiave: lavoro (167), jobs act (5), riforma (44), disoccupazione (12)
Jobs Act, graziato dalla Consulta. Ma funziona o no?

Se il referendum proposto dalla Cgil aveva come obiettivo l’introduzione di alcune modifiche sostanziali al Job Act e un deciso contrasto all’accesso di precarietà, a due settimane di distanza dalle  decisioni della Corte Costituzionale sull’ammissibilità dei quesisti  referendari può risultare utile una riflessione ‘a freddo’ su ciò che resta dell’iniziativa del più grande sindacato italiano.

La dichiarazione di inammissibilità del quesito sull’articolo 18, che puntava a cancellare tout court le innovazioni della riforma Renzi-Poletti per ripristinare per tutti i lavoratori la sanzione del reintegro nel posti di lavoro nell’ipotesi di licenziamenti ritenuti illegittimi, è stata accolta dai più con un grande sospiro di sollievo.

I sostenitori dell’inammissibilità di questo quesito, al di là delle  motivazioni giuridiche, argomentano che la decisione della Corte ha evitato un ‘ritorno al passato’, ai tempi delle lotte ideologiche prive di  costrutto; ha consentito di proseguire la lotta al ‘nanismo’ indicato come una delle cause della scarsa crescita della produttività e del lento processo di innovazione delle nostre imprese; ha salvaguardato i margini di flessibilità ritenuti indispensabili per incentivare le imprese ad assumere

Dire quanto siano fondate queste argomentazioni ‘politiche’ non è facile, anche perché mancano dei riscontri pratici sui quali fondare un giudizio   obiettivo. In assenza di analisi i puntuali non è possibile affermare, con cognizione di causa, che l’eliminazione dell’art. 18 abbia comportato una crescita dimensionale delle nostre imprese. L’unico riscontro è fornito dal censimento del 2012, secondo il quale la dimensione media aziendale è di dieci lavoratori al Centro-Nord e di cinque lavoratori al Sud.

Da allora sono passati cinque anni e non è stata fatta nessun’altra rilevazione, mentre è sotto gli occhi di tutti la progressiva scomparsa di grandi imprese nella nostra come nelle altre aree industrializzate del Paese.

Altrettanto difficile è affermare, con il supporto di dati, che l’ammissibilità del quesito sull’articolo 18 avrebbe privato le imprese di un importante incentivo per  assumere. In linea generale è indubbio che la concessione di margini di flessibilità sempre più ampi ha favorito la creazione di nuovi posti di lavoro. È altrettanto vero che questo non è l’unico incentivo. Fino a quando sono stati sostanziosi hanno contribuito  anche gli incentivi del Governo, ma resto convinto del fatto che, per le imprese, il maggior incentivo alle assunzioni sia rappresentato dal miglioramento sostanziale del clima economico,  capaci di dare un forte impulso agli investimenti e al rinnovamento tecnologico delle aziende.

È apparso evidente che dietro al quesito sull’articolo 18 ci sia la rivendicazione da parte del sindacato di un ruolo fortemente limitato dalla «disintermediazione», cioè dalla rinuncia dell’attività negoziale svolta dalle associazioni di interesse nella convinzione ‘renziana’ che per fare le riforme fosse sufficiente il contatto tra i leader e il popolo, senza passare dalla fase di interlocuzione e confronto con le parti sociali.

La rappresentanza sindacale sta attraversando una crisi profonda a causa soprattutto della difficoltà di interpretare un arcipelago del lavoro molto differenziato e non di rado contraddittorio. Per gli stessi motivi anche la stagione del riformismo ‘a sportellate’ sta dimostrando i suoi limiti e lo stesso Job Act ne è  forse la dimostrazione più lampante di questo stato di cose. Tutto questo postula l’esigenza di un ripensamento della «disintermediazione» per puntare a politiche che ampliano la torta della ricchezza da dividere fra investimenti e salari.

Diversamente dal quesito sull’articolo 18, quello sull’abrogazione delle disposizioni sul «lavoro accessorio» (voucher) è stato ritenuto ammissibile dalla Corte Costituzionale. Ciò comporta che in primavera andremo a votare, a meno che non vengano introdotte modifiche sostanziali al provvedimento oggetto di consultazione.

A seguito della pronuncia della Corte si è scatenato su questo tema un acceso dibattito al termine del quale è prevalsa l’idea che le accuse  rivolte ai voucher di aver  causato una progressiva precarizzazione del mercato del lavoro sono infondate. I sostenitori di questa tesi sono andati a rispolverare report anche datati per dimostrare che la consistenza e l’impatto del fenomeno voucher sono tutto sommato abbastanza contenuti, senza escludere tuttavia l’esigenza si apportare allo strumento modifiche anche sostanziali per riportarlo alla sua funzione originaria, che era quella di contrastare il lavoro nero.

Come nel caso dell’abolizione dell’articolo 18 non disponiamo di evidenze empiriche per dimostrare che lo scopo è stato raggiunto. Disponiamo invece di copiose evidenze per dimostrare che ha avuto uno sviluppo abnorme e che ha finito per prendere il posto di altre forme di lavoro precario che il Job Act ha accantonato a favore del contratto a tutele crescenti.

Quando il lavoro non c’è o è riservato a pochi fortunati, qualunque  norma o strumento in grado di offrire opportunità di lavoro anche occasionali credo debba essere salutati con favore. Nello stesso tempo concordo sulla necessità di eliminare gli abusi  attraverso disposizioni ad hoc come quelle varate dal Governo, ma anche attraverso un monitoraggio costante per evitare che ancora una volta la situazione sfugga di mano.

Alla luce delle considerazioni svolte, credo che l’iniziativa referendaria della Cgil abbia avuto il merito di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’emergenza lavoro, sulla situazione di estrema precarietà in cui si trovano le nuove generazioni per le quali, soprattutto qui a Torino, il lavoro resta un miraggio. Nella nostra area, è bene ricordarlo, i giovani in cerca di occupazione sono 120.000. Fra essi ci sono quelli che il lavoro lo cercano, ma non lo trovano, e quelli che hanno rinunciato a cercarlo. Ma ci sono anche quelli che sono diventati poveri, mentre non figurano i giovani che sono ‘fuggiti’ per cercare un’occupazione che qui non c’è.

Per ridare speranza ai giovani ed evitare di perdere un’altra generazione è assolutamente necessario che i loro problemi assorgano ad emergenza nazionale. Questo purtroppo non accade e temo che anche la denuncia della Cgil sulla precarietà ben che vada contribuirà a migliorare la situazione, ma poco potrà fare per cambiarla almeno fino a quando si continua a ritenere che la lotta alla disoccupazione giovanile non è una priorità e che comunque c’è sempre qualcun’altro che deve provvedere. 

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