Giovani e lavoro: scelte concrete

Intervento: dai temi emersi dall'Agorà del Sociale una riflessione sul mondo occupazionale del docente di economia

Parole chiave: lavoro (167), giovani (205), occupazione (13)
Giovani e lavoro: scelte concrete

L’incontro del 19 novembre, all’interno del cammino pluriennale dell’Agorà Sociale dell’Arcidiocesi di Torino, ha avuto, come tesi «Il lavoro e i giovani», argomento poderoso se si ha presente che la situazione attuale è che non c’è lavoro per molti (troppi) giovani e per molti (troppi) giovani il lavoro che c’è non è dignitoso. Esempio tipico di lavoro non dignitoso è, nell’ordinamento giuridico italiano, il «lavoro accessorio» (lavoro a voucher), creato dalla Legge Biagi del 2003 con l’intento di favorire l’emersione di particolari sacche di occupazione occasionale che sfuggivano all’imposizione fiscale e contributiva, estesa dalla stessa legge anche agli enti delle pubbliche amministrazioni e ancor più estesa dal Jobs Act del 2015: a tutti i settori ed eliminando il requisito dell’occasionalità.

L’indegnità del lavoro a voucher sta nella precarietà; sta nella completa assenza dei requisiti di un lavoro dignitoso, in quanto capace, da un lato, di valorizzare, per ciascuno, le potenzialità di realizzazione di se stesso e, dall’altro lato, di fornire le condizioni materiali e culturali per costruire un affidabile progetto di vita individuale e famigliare; sta nel fatto che realizza l’idea che ‘l’uomo sia per il lavoro’, cioè cerca di adattare l’uomo e la donna alle esigenze del datore di lavoro, mentre deve essere che ‘il lavoro è per l’uomo’.

Premessa, affinché si possa realizzare questa rivoluzione, è che la comunità (famiglie, scuole, nelle loro diverse configurazioni e livelli, e imprese) dia luogo a un processo coordinato di educazione-istruzione-formazione che porti a dotare i giovani di elevati (o, per lo meno, accettabili) livelli culturali e di conoscenza e di capacità di lavoro; questo in quanto non si esce da nessuna situazione di emarginazione, di sottosviluppo e di povertà, di emarginazione economica e sociale senza ungrande investimento educativo e in capitale umano.

Ma questo processo virtuoso richiede tempi non brevi di programmazione e di implementazione; quindi è possibile che sia necessaria (per alcuni, indispensabile) la presenza di azioni di politica di welfare. In certi casi queste devono svolgere un’azione di sostegno (economico, abitativo, sanitario), cioè interventi di welfare passivo, specie in presenza di situazioni di povertà, ma solo in caso di emergenza. La norma dev’essere quella di interventi di welfare attivo, che non si limitino a sostenere le persone nelle difficoltà, ma intervengano con l’animo di accompagnare le persone a uscire dallo stato di difficoltà, camminando con le proprie gambe. Il principio del welfare attivo è suscettibile di applicazioni in campi diversi. Così dovrebbe essere applicato anche con riferimento a una questione oggi assai dibattuta: il reddito di cittadinanza. Affinché risulti essere non una misura meramente assistenziale, questo dovrebbe essere configurato, in linea di massima, come misura di affiancamento a programmi d’inserimento o di reinserimento lavorativo: uno strumento per creare non dipendenza, ma autonomia e inclusione sociale.

Uno dei punti più ampiamente condiviso dai presenti all’Agorà è stata la costituzione di un Osservatorio su giovani e lavoro. Ma dev’essere un Osservatorio (cui partecipino tuttele parti interessate: imprese, sindacati dei lavoratori, amministrazioni pubbliche, associazioni di famiglie e della società civile, chiese…) che non si limiti a osservare, bensì abbia come missione anche la proposizione di interventi in grado di essere attivati; interventi de jure condito, ma anche de jure condendo.

Un esempio: da diversi mesi gira in Piemonte un progetto predisposto da alcuni economisti e sociologi dell’Università di Torino e dell’Università del Piemonte Orientale, incentrato sull’assunzione di giovani qualificati nella pubblica amministrazione, con contratto a tempo indeterminato; questo in quanto il nostro Paese è ampiamente sottodimensionato (rispetto alla maggior parte delle economie a noi prossime) in termini di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione presente. Questi giovani dovrebbero essere assunti nei settori della pubblica amministrazione erogatori di servizi di preminente rilevanza sociale e con evidente carenza di personale rispetto al fabbisogno (ad esempio, sanità, giustizia, tutela e miglioramento del territorio, messa in sicurezza del patrimonio abitativo, salvaguardia del patrimonio culturale…). La conseguenza sarebbe un aumento della domanda aggregata (per l’aumento del reddito disponibile presso i neoccupati) e dell’offerta aggregata (per l’aumento di erogazioni di servizi pubblici socialmente rilevanti, la cui mancanza spesso tarpa le ali al funzionamento dell’economia); domanda e offerta aggregate che beneficerebbero anche dello stato di maggiore fiducia che questa manovra, se corposa, creerebbe nella società e nell’economia.

Ma come finanziare questa maggiore spesa pubblica? Con un’imposta sui patrimoni finanziari nazionali, con un’aliquota modesta (4 per mille se i neoassunti fossero nella misura di un milione) per una durata, si può stimare, di 4-5 anni: il tempo necessario affinché il maggior reddito prodotto dall’intervento generi maggiori entrate tributarie ordinarie di pari valore. Idea folle? Non parrebbe, dato che gli estensori del progetto si sono premurati di compiere un’indagine campionaria (scientificamente robusta) dalla quale è risultata un’ampia maggioranza di persone (70 per cento) che hanno risposto di «sì» alla domanda: «Sarebbe favorevole all’introduzione di un’imposta temporanea sul proprio patrimonio finanziario al fine di finanziare l’assunzione a tempo indeterminato, nella pubblica amministrazione, nei settori di primaria rilevanza sociale e con carenza di personale, di giovani disoccupati o in cerca di prima occupazione?».

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