I rischi del protezionismo per l'Unione Europea

Dalla crisi economica decennale alla crisi dell'idea d'Europa. Sullo sfondo nuovi pericoli

Parole chiave: protezionismo (2), unione europea (11), stati uniti (38)
I rischi del protezionismo per l'Unione Europea

Un nuovo fantasma s’aggira in Europa e non solo. Dopo aver importato dal mondo anglosassone la crisi finanziaria nel 2008, e con essa una progressiva riduzione degli scambi commerciali e una gelata sulla crescita, adesso ci aspetta un altro regalo avvelenato, con i venti di protezionismo che si annunciano in forte aumento per il mondo e l’Europa.

Ad accendere la miccia ci ha pensato Donald Trump, annunciando le priorità dei suoi primi cento giorni da Presidente USA e il primo accordo a saltare è stato il Trattato multilaterale “Trans Pacific Partnership” (TTP), fratello gemello di quello transatlantico tra USA e UE (TTIP), già ibernato con poche speranze che possa risorgere.

Sono solo i primi segnali di un ritorno dei dazi, delle barriere commerciali e delle frontiere che dagli USA esonderanno in Europa, con una Gran Bretagna che li accoglierà a braccia aperte e una Francia che sarà fortemente tentata di orientarsi in quella direzione.

Qualcuno già parla di fine della globalizzazione e del libero scambio: il discusso consigliere di Trump, Steve Bannon, parla senza esitare di nazionalismo economico, qualcuno addirittura di patriottismo, resuscitando nostalgie in Europa mai consumate e alimentando la demagogia dei muri, non solo per le merci ma anche – e forse soprattutto – per la libera circolazione delle persone.

Con la globalizzazione dell’economia – fenomeno non nuovo per l’Europa che già l’aveva conosciuta all’inizio del secolo scorso, prima di precipitare nella spirale dei nazionalismi e delle due guerre mondiali – ci eravamo abituati a convivere fino dagli anni ’90, apprezzandone risultati e criticandone gli effetti negativi. Tra questi ultimi, incontestabilmente, la riduzione del settore manifatturiero nei nostri Paesi e quella dell’occupazione, vittima delle delocalizzazioni delle nostre imprese in aree a bassi salari. Da questo bacino elettorale è venuto un grande contributo alla vittoria di Trump che adesso fa della lotta alle delocalizzazioni la sua priorità, come promesso in campagna elettorale.

Non sembrano smuoverlo da questo orientamento i molti osservatori che suggeriscono di non dimenticare i benefici della globalizzazione, citando una riduzione annua di 75 milioni di poveri nel primo decennio di questo secolo e ricordando che la percentuale di poveri nel mondo nel 2013 era al 10,7% rispetto al 35% di 26 anni fa. Anche le disuguaglianze tra gli Stati si sono ridotte, benché in presenza di un’accresciuta disparità all’interno dei singoli Paesi.

La svolta protezionista in corso non soltanto ostacola il libero scambio, con la conseguenza di rallentare l’economia, ma rischia di creare tensioni politiche – e si spera, non militari – tra aree commerciali tra loro concorrenti, private della protezione di accordi multilaterali ed esposte ai rapporti di forza bilaterali dai quali gli USA e gli altri giganti economici, come la Cina, cercheranno di trarre vantaggio.

Qualcosa già si intravvede in Asia dove la decisione di Trump, avversa al Trattato transpacifico, ha provocato non poche tensioni, preoccupando il Giappone e spianando la strada all’iniziativa nell’area della Cina, suo ingombrante vicino.

In un tempo della storia in cui la guerra – almeno provvisoriamente – non si fa con le cannoniere, ma con i commerci, quanto accade sta iniziando a modificare la geopolitica internazionale e non mancherà di avere un impatto importante anche in Europa.

Con l’uscita dall’UE, la Gran Bretagna esce anche da tutti gli accordi multilaterali e cercherà di cogliere l’occasione per negoziare intese bilaterali, attivando al ribasso l’arma fiscale, come già annunciato, per battere la concorrenza degli altri Paesi UE per attirare nuove imprese.

Siamo appena agli inizi di una nuova stagione di rapporti internazionali, che aprono inattesi e pericolosi scenari non solo per gli scambi commerciali, ma anche per la circolazione delle persone che il protezionismo finirà per alimentare in chi, privato di lavoro in Paesi poveri, sarà costretto a venirlo a cercare in quelli ricchi che, per proteggere il lavoro dei nativi, alzeranno inutili muri e frontiere illudendosi di arginare così i flussi migratori.  

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