Fondare una nuova Europa, sociale, inclusiva e plurale

Michele Nicoletti, presidente della Delegazione Italiana presso l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e Relatore generale della Conferenza di alto livello sulla Carta Sociale europea che si è tenuta a Torino il 17-18 marzo 2016

Parole chiave: europa (177), sociale (24), patto (4), società (56)
Fondare una nuova Europa, sociale, inclusiva e plurale

On. Nicoletti, intanto perché una Conferenza di alto livello sulla Carta sociale europea a Torino,  culla della Carta firmata qui nel 1961? Quali sono le sfide che da Torino, città della Carta sociale ma anche dei c.d. Santi sociali, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa lancia  ai parlamenti nazionali?

Il Consiglio d’Europa ha eletto Torino città europea dei diritti sociali. Più di 50 anni fa la Carta Sociale Europea, la cosiddetta “costituzione sociale” dell’Europa, è stata firmata qui, in una città simbolo, per l’Italia e per l’Europa, del lavoro come attività eminentemente umana e dunque del rapporto tra il lavoro e l’umanità, tra il lavoro e la cultura, tra il lavoro e il diritto, tra il lavoro e la politica. Solo a scorrere la ricchezza del patrimonio ideale della città, dal cristianesimo sociale al liberalismo sociale e alle multiformi espressioni della tradizione democratica e socialista, solo a guardare le “opere” che qui si sono realizzate dalle “opere” di carità o di imprenditoria sociale alle opere di pensiero filosofico, storico, giuridico, è difficile trovare altra città così segnata e appassionata alla questione dei “diritti sociali”. Quando due anni fa il Consiglio d’Europa ha deciso di rilanciare la Carta sociale europea di fronte a una drammatica compressione dei diritti sociali per via della crisi economica, delle politiche di austerity e delle diverse emergenze umanitarie, è venuto spontaneo pensare a Torino e la città, con il suo sindaco Piero Fassino, ha risposto subito con generosità. Dopo la prima conferenza dell’autunno 2014 che ha rilanciato a livello intergovernativo la Carta Sociale, abbiamo voluto coinvolgere i Parlamenti con questo secondo incontro. E Torino ora si è detta pronta ad ospitare un Forum europeo permanente sui diritti sociali. Un bellissimo segnale che rilancia non solo la centralità dei diritti sociali in tutte le politiche di sviluppo e di crescita sia economica, che democratica, ma anche la centralità delle città in questi processi. È impossibile pensare alla tutela concreta dei diritti sociali senza un protagonismo delle municipalità e delle amministrazioni locali. 

Come sono andati i lavori di questi giorni? Quanti e quali partecipanti avete avuto? Ritiene che gli obiettivi della conferenza siano stati raggiunti? Ci spiega cos’è il processo di Torino?

La partecipazione è stata molto significativa considerando che erano presenti 30 Paesi membri del Consiglio d’Europa, alcuni rappresentati da Presidenti o vicepresidenti di Parlamento come la Russia, Malta, la Turchia e altri ancora, oltre ai rappresentanti del Parlamento e della Commissione Europea. Vi è stata così la possibilità di un confronto anche sulle emergenze drammatiche a partire da quella dei profughi con i contributi dei Paesi più esposti alla pressione come la Turchia e la Grecia, ma anche dei Paesi più impegnati nell’assistenza come la Svezia. E poi, naturalmente, anche le testimonianze di Paesi attraversati da tensioni e conflitti come l’Ucraina. Obiettivo della conferenza era mettere a confronto le diverse situazioni di minaccia dei diritti sociali per capire quali sono le fasce di popolazione più esposte, valorizzare le buone pratiche messe in atto dai governi e poi spronare i Parlamenti a far pressione sui Governi perché il processo di ratifica sia portato a compimento e soprattutto gli strumenti di tutela dei diritti sociali, come la procedura dei reclami collettivi, siano adottati. Ne possono trarre giovamento non solo i cittadini che hanno in questo modo uno strumento di tutela “europeo” dei loro diritti (accanto alla Corte di Strasburgo), ma anche i governi che vedrebbero aumentata la coesione sociale dei loro territori. Il Processo di Torino è esattamente questo processo di rilancio e di valorizzazione della Carta Sociale Europea non solo come elenco di diritti da rispettare (cibo, vestiario, abitazione, salute, assistenza, lavoro, sostegno alla disabilità eccetera) ma anche come strumento di «governance».

Qual è lo stato di salute della tutela dei diritti sociali in Europa? E quali sono a suo avviso le principali sfide che i popoli e le nazioni europee non possono non vincere.

Rispetto ad altri continenti l’Europa si distingue ancora per uno standard molto elevato di rispetto dei diritti sociali. Le politiche di welfare sono nate in questo continente e ne hanno plasmato lo stile di vita. Vivere all’europea vuol dire ancora per molti vivere in una società in cui la dignità della persona umana non è solo una parola ma una serie concrete di misure economiche e sociali che sostengono la vita di tutti. E tuttavia la crisi economica e ora la grande emergenza umanitaria dei profughi hanno scosso le fondamenta di questo modello europeo. Ci sono zone di Europa in cui ci sono tassi inaccettabili di povertà e di disoccupazione, difficoltà di accesso alle cure sanitarie, per non parlare di richiedenti asilo che fuggono dalle persecuzioni e che sono lasciati nel fango, in mezzo a fili spinati, o di 10.000 bambini arrivati tra i profughi ora spariti. Una tragedia per le vittime di questa situazione, una vergogna per la cosiddetta “civiltà europea”. L’Europa è una tra le grandi potenze economiche, militari, spirituali del mondo. Ha tutte le risorse per fare fronte a queste emergenze. È inaccettabile che non usi queste risorse e si avviti in egoismi e calcoli meschini.

Tra i principali elementi che vengono solitamente frapposti a un’effettiva attuazione dei diritti sociali vi è il limite dei bilanci pubblici, ma è davvero questo il nodo del problema? I diritti politici o civili non costano quanto i diritti sociali? Costa più l’organizzazione del sistema giudiziario o quella del sistema sanitario? Ma a nessuno verrebbe mai in mente di non indire libere elezioni o di eliminare il sistema giudiziario per operare dei risparmi. E allora perché questo pregiudizio e/o accanimento sempre e solo nei confronti di tali diritti? Perché tra i diritti fondamentali quelli sociali sono percepiti come più rinunciabili? Non garantirli è sempre davvero un risparmio?

Gli investimenti in diritti sociali non solo sono un atto di giustizia, ma sono una strategia intelligente di sviluppo e crescita economica. Lo aveva capito perfettamente la Germania ottocentesca con le prime strategia di Welfare State e poi via via tutti gli altri Paesi europei. Investire in salute, in istruzione, in tutela del lavoro, in integrazione sociale eccetera vuol dire diminuire altre spese legate ad esempio alla sicurezza o alla repressione. Si pensi alle spese altissime e spesso improduttive del sistema carcerario: con una intelligente prevenzione, con più lavoro sociale, si avrebbero significativi risparmi di drammi esistenziali e di denaro pubblico. È un grave errore contrapporre diritti sociali a politiche di controllo del debito pubblico. Lo hanno fatto alcuni governi ottusi ma non deve essere così. Anche il controllo del debito pubblico è una forma di tutela di diritti sociali, ad esempio quelli delle generazioni future su cui non possiamo certo scaricare i lussi di una finanza pubblica allegra e irresponsabile come è stato fatto in passato. Ma questo non può significare far diminuire la speranza di vita delle persone, spingere le persone a non curarsi, non dare a tutti i bambini una buona istruzione eccetera. I diritti sociali primari sono diritti umani fondamentali. Non si possono violare, tanto meno in una società in cui la ricchezza continua ad esserci.

I diritti sociali per quanto tutelati e garantiti da fonti internazionali e nazionali sono solitamente resi effettivi su scala locale: quali sono le sfide che le grandi e medie città europee sono chiamate oggi a raccogliere e qual è il loro ruolo per difendere i diritti dei più vulnerabili?

È proprio così: nel campo dei diritti sociali vale anzitutto il principio di sussidiarietà. Procurarsi del cibo, una casa, un lavoro eccetera è un diritto ma è anche un compito di ciascuno. E quindi dal basso ogni essere umano, ogni famiglia, ogni comunità con le sue articolazioni sociali e le sue istituzioni deve darsi da fare. Nessuno pensa a un orribile Stato totale che dalla culla alla bara si prenda di ogni aspetto della vita di un individuo. In questo le famiglie, le associazioni, le comunità locali sono le vere protagoniste: i veri sensori dei bisogni, coloro che meglio riescono a mettere in atto strategie di empowerment delle persone in difficoltà ed eventualmente ad assisterle. Ma servono anche chiare cornici giuridiche di tutela universale – come le Costituzioni e le Carte internazionali – servono istanze a cui appellarsi, servono sindacati e associazioni capaci di mobilitarsi e partiti in grado di tradurre in politiche tutto questo. Il terreno dei diritti sociali è proprio il terreno in cui va sperimentato quel modello virtuoso di collaborazione tra Europa-Stato nazionale-Regioni e Città-Associazioni-Cittadini capace di evitare, da un lato, il trionfo dell’individualismo fai-da-te che vede soccombere i più deboli, dall’altro, il modello dello Stato totale che non è né auspicabile, né praticabile. Il principio di sussidiarietà è una buona linea guida per ricostruire l’equilibrio spezzato: si parta dai bisogni e dai diritti delle persone e si cerchi di potenziare la capacità di risposta delle persone stesse e delle cerchie sociali a loro più vicine con politiche di controllo e di supporto là dove queste siano deficitarie. Non è difficile: basta prendere sul serio la dignità di ogni persona.

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