Usa 2016, vince chi conquista i moderati

Verso l'8 novembre. Finisce l'era Obama. A contendersi la Casa Bianca la democratica Hilary Clinton e il repubblicano "anomalo" Donald Trump. Parla il corrispondente Ennio Caretto

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Usa 2016, vince chi conquista i moderati

 

«Le presidenziali americane sono elezioni atipiche, dove entrambi i candidati hanno un basso indice di popolarità: Donald Trump, il candidato repubblicano, è stato addirittura scaricato dal suo partito; Hillary Clinton, democratica, non solleva grandi entusiasmi nell’elettorato».

Ennio Caretto, dal 1978 al 2011 corrispondente dagli Stati Uniti per «La Stampa», «la Repubblica» e il «Corriere della Sera», attento osservatore della realtà politica e sociale americana, fa il punto sul grande appuntamento elettorale, a meno di venti giorni dalle presidenziali dell'8 novembre. Lo abbiamo incontrato a Torino, ospite dell’associazione Ben-e e del Sea (Servizio emergenza anziani) all’Educatorio della Provvidenza.

Caretto, come vede queste presidenziali?

La popolarità dei candidati è bassa. Nella campagna, troppo spesso, prevalgono scambi di accuse reciproche, che oscurano il normale confronto tra i programmi. In queste condizioni non ci si deve stupire del crescente disinteresse degli americani per la politica.

Come è la situazione dell'America oggi?

L'economia va meglio che in Europa e vi è una certa ripresa occupazionale. Eppure predomina comunque un sentimento di insicurezza, tra delocalizzazione delle imprese, immigrazione e rischio terrorismo. E allora si aprono vaste praterie per i populismi di ogni genere.

Un'ondata populista simile a quella europea?

La politica odierna un po' dappertutto è sotto lo scacco del populismo e gli Stati Uniti non sfuggono a questa regola. Entrambi i partiti ne soffrono, ma ad esserne più colpito è quello repubblicano, che vive una vera e propria mutazione genetica.

Cosa succede in casa repubblicana?

Il Partito repubblicano non è più quello di Theodore Roosevelt, che combatteva i monopoli, o di Dwight Eisenhower, che denunciava il pericolo del complesso militare-industriale, capace di influenzare la democrazia. I repubblicani hanno perso il tradizionale orientamento moderato, che è appartenuto loro fino a George Bush padre, e oggi sono preda del fondamentalismo evangelico e dei cosiddetti Tea-party, gli estremisti in rivolta contro il fisco. Componenti che sono finanziate da grandi potentati economici con un totale spostamento a destra del partito. Basti pensare che queste frange radicali considerano la socialdemocrazia alla stregua del comunismo.

Per questo nel partito ha prevalso Trump?

Trump ha certamente sfruttato la deriva estremista del Partito repubblicano. Emblematico il fatto che, nelle sue fila, dopo le primarie del Super Martedì di marzo, erano rimasti in lizza quattro candidati, di cui uno solo, il governatore dell'Ohio John Kasich, appartenente all'ala moderata. Trump, però, è un personaggio che sarebbe errato sottovalutare, poiché gode di un considerevole  sostegno tra gli uomini bianchi delle fasce meno istruite, che si sentono minacciati dall'immigrazione e dalle minoranze. 

Tra i democratici le cose vanno meglio?

I democratici hanno scelto, a priori, di puntare su Hillary Clinton. Il partito si è dunque mobilitato per lei, anche se parte della base non ha mostrato di apprezzarla molto. Ecco perché, a un certo punto, è entrato in lizza Bernie Sanders, senatore del Vermont su posizioni socialdemocratiche all'europea; fautore, ad esempio, di un sistema sanitario pubblico. Nelle primarie si è così aperta una contesa tra la candidata dell'establishment e quello, se vogliamo, della base. Adesso però la frattura si è ricomposta. D'altronde è il classico meccanismo delle primarie.

In che senso?

Nelle primarie, rivolte alla pancia del partito, emergono spesso posizioni radicali. Poi, ottenuta la nomination, per vincere le presidenziali, ci si sposta verso il centro. Una regola aurea, sempre rispettata nella politica americana. Negli Stati Uniti l'alternanza esiste davvero: nel XX secolo ci sono stati 52 anni di dominio repubblicano e 48 anni di dominio democratico. Tutto si gioca attorno al voto fluttuante del centro moderato, da sempre arbitro di qualsiasi elezione. Ecco perché, fatte salve alcune non trascurabili differenze sul fisco o sulle politiche sociali, tra le diverse amministrazioni repubblicane o democratiche vi è una sostanziale continuità in politica estera e in quella economica, dove è sempre presente un forte protezionismo.   

Proprio nella terra del liberal-capitalismo?

Gli Stati Uniti sono liberisti oltre frontiera, ma quando si tratta di tutelare i propri interessi economici diventano protezionisti, come mostrano le commesse industriali tolte a società europee a favore dell'industria nazionale. Emblematico il caso degli elicotteri Finmeccanica.

Quali i punti salienti dei programmi di Trump e della Clinton?

Trump vuole ridurre l'imposta sulle società dall'attuale 35 al 15 per cento. La sua ricetta è basata sulla teoria dello «sgocciolamento», per la quale una minor tassazione dei redditi più elevati si traduce in una crescita economica che, per l'appunto, sgocciola fino alle classi più povere. In realtà questo non succede, poiché più che investire in attività produttive i ricchi speculano in Borsa, senza che si abbiano grandi ricadute sul benessere generale. Con la Clinton ci sarebbe più equità fiscale e quindi maggiori vantaggi per le classi medio-basse. Sul fronte economico è probabile un impulso al Trattato transatlantico con l'Europa, anche se ben pochi sarebbero i vantaggi per l'Unione, in quanto abbiamo maggiori tutele sul lavoro, sull'ambiente e sulla sicurezza alimentare.

E sulla politica estera?

La politica estera di Trump è una vera incognita, forse crescerebbe la tendenza isolazionista. Con la Clinton, per contro, potrebbero peggiorare i rapporti con la Russia, mentre è proprio con Mosca che bisognerebbe allearsi per battere l'Isis.

Se la sente di fare un pronostico?

Trump può vincere solo se la Clinton inciampasse in qualche nuovo scandalo o nuova rivelazione, anche se neppure il magnate è immune da questo genere di problemi. Anche una recrudescenza del terrorismo potrebbe favorirlo. In condizioni di normalità la vittoria non dovrebbe quindi sfuggire alla Clinton. Va peraltro ricordato che insieme alle presidenziali ci sono le elezioni legislative, per il rinnovo di parte del Congresso. Oggi i repubblicani dispongono di 246 deputati alla Camera contro 186 democratici; mentre al Senato, oltre a due senatori indipendenti, il vantaggio repubblicano è di 54 a 44. Anche queste elezioni sono importanti, poiché per il Presidente americano è decisivo disporre di una maggioranza favorevole.

Quale, infine, l'eredita del presidente Barack Obama?

Obama è stato paralizzato da un Congresso ostile. Anche così, però, è riuscito a fare la riforma sanitaria, a rilanciare l'economia e ad aprire all'Iran e a Cuba. Tutto sommato, una buona presidenza.

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