Dale Racinelle, da Wall Street al braccio della morte

Intervista al cappellano dei condannati alla pena capitale

Parole chiave: cappellano (3), stati uniti (38), pena di morte (4)
Dale Racinelle, da Wall Street al braccio della morte

Da Wall Street alle carceri americane, da avvocato affermato e di prestigio a cappellano dei condannati a morte. Questa la storia di Dale Recinella Nel 1998 ha iniziato l’assistenza di cella in cella per i circa 400 uomini del braccio della morte e i circa 2 mila in isolamento detentivo in Florida. Nei giorni scorsi è stato a Torino (nella parrocchia San Giulio d’Orta e al Sermig, gli incontri sono strati promossi dal Comitato Paul Rougeau in collaborazione con Caritas diocesana) per raccontare la sua esperienza e la sua scelta di vita e di fede apparentemente controcorrente e al di fuori di ogni logica.. Lo abbiamo intervistato.

Lei aveva tutto ciò che, nell’immaginario comune, un uomo può desiderare. Fama, soldi, potere. E l’ha lasciato per dedicarsi a chi ha il destino segnato. Perché?

C’è una cosa in cui credo fermamente: il diritto a una seconda possibilità. 28 anni fa ho avuto un drammatico incidente, che mi ha portato a pochi passi dalla morte. Ho mangiato un’ostrica avariata, che mi ha costretto in ospedale per molti mesi. Potevo andarmene e invece sono rimasto. Ho ricevuto un dono e ho deciso di cambiare la mia vita. Di rivoluzionarla secondo gli insegnamenti di Dio. Di aiutare le persone che soffrono. Ho iniziato con i senza tetto, camminando con chi vive per strada e assistendo i malati di Aids. Poi mi è stato chiesto di seguire i detenuti della Florida e, dopo dieci anni, mi è stato proposto di fare il cappellano laico nel braccio della morte.

Crede in una seconda possibilità anche per chi ha stuprato e ucciso?

Le storie custodite dal carcere americano sono orribili, i crimini inimmaginabili. Ma ogni essere umano è fatto a immagine e somiglianza di Dio e la dignità dell’uomo non deve mai venire meno. Chiunque è migliore della sua peggiore azione ed è peggiore della cosa migliore che ha fatto. Chi sbaglia deve pagare e chi è un pericolo per la società dev’essere messo sotto sorveglianza. Ma è possibile proteggere i cittadini senza arrivare a giustiziare un uomo.

Chi è stato condannato al braccio della morte sa esattamente il giorno, l’ora e il modo in cui la sua vita avrà fine. In che modo lei può essere d’aiuto?

Questi uomini devono sapere che non sono diventati invisibili, che la loro vita ha valori, che non sono stati abbandonati da tutti, che qualcuno ancora vuole loro bene. Sono persone con  mogli o dei mariti, figli, genitori,  amici. Nessuno, ad esempio, mi chiede mai delle famiglie dei condannati a morte.

C’è qualcosa che vorrebbe dire a proposito?

Sì. La pena di morte è terribile sia per le famiglie dei condannati sia per le famiglie delle vittime. Chi sta per essere ucciso dallo Stato ha una madre, un padre,  figli, zii, fratelli, cugini. Loro non hanno fatto nulla di male, eppure stanno per perdere una persona cara. Richiedono attenzione e sostegno. Anche per le famiglie delle vittime non è semplice. Il processo è duro da affrontare, la pressione impossibile da immaginare.

I famigliari del condannato  possono fermare l’esecuzione?

In realtà no. Non possono dire alla giura che non vogliono la pena di morte. Rischiano l’incarcerazione per sei mesi e una multa di circa 200 mila dollari. È una mera questione di potere. Lo Stato vuole dimostrare il suo potere. Delle vittime e delle loro famiglie non se ne cura nessuno. Da tutta questa storia ci guadagnano in immagine solo i politici. «Ho ucciso queste persone, ho reso la città più sicura: rieleggimi». Ecco qual è il punto.

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