Quarant’anni fa il processo alle Br

Nell' anniversario  della prima udienza del Processo alle Bierre una giornata di iniziative culturali, tra memoria e narrazione. TorinoRicorda, al Campus Einaudi Università di Torino un progetto Ocralab

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Quarant’anni fa il processo alle Br

Quel lunedì 17 maggio 1976, a Torino si avvertiva una temperatura d’estate imminente. La colonnina del mercurio segnava infatti oltre 25 gradi. Nulla, però, al confronto di ciò che si percepiva nell’aula del Tribunale della corte d’Assise, in via Corte d’Appello, per le urla, le invettive, i proclami e le minacce a senso unico, dagli imputati ai giudici e avvocati. Sì, proprio gli avvocati (d’ufficio), accusati di essere «collaborazionisti del Tribunale». Era cominciato il processo alle Brigate Rosse, il gruppo eversivo di estrema sinistra accusato del sequestro-lampo del sindacalista della Cisnal Bruno Labate e di quello del responsabile del personale Fiat Ettore Amerio, entrambi avvenuti nel 1973, e del rapimento del magistrato genovese Mario Sossi. Un’azione terroristica quest’ultima che aveva gettato il Paese in una dimensione di strana e pericolosa confusione per le istituzioni.

Gli imputati sono ventitré, ma alla sbarra, a stretto contatto fisico con i loro accusatori, ne è presente la metà. I detenuti, in piedi, salutano con il pugno chiuso sinistro levato in segno di sfida allo Stato. Ad accoglierli un applauso, raccontano le cronache, dei loro simpatizzanti. La foto in bianco e nero, che i principali quotidiani pubblicheranno il giorno dopo, rappresenta una sorta di prima pagina della storia Brigate Rosse: l’embrione di un’idea rivoluzionaria, l’anelito di una giustizia sociale declinato sulla violenza intesa come «levatrice della storia», secondo una vulgata che piegava l’originaria riflessione di Carlo Marx a una visione primitiva della lotta politica.

Ma chi sono le Brigate Rosse in quel maggio del 1976? Chi sono i loro capi, dallo studente di sociologia all’Università di Trento Renato Curcio, all’ex militante del Pci, il reggiano Alberto Franceschini, al «colonnello» Alfredo Bonavita, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene, Tonino Paroli, Arialdo Lintrani, nomi che si ritroveranno negli anni seguenti sempre più immersi nel cortocircuito terroristico. L’informazione va a singhiozzo, stenta a dare un quadro d’insieme dei raccordi che si sono saldati a cavallo degli anni Sessanta e Settanta tra la protesta del movimento extraparlamentare e la violenza organizzata espressa da gruppi che si richiamano all’ideologia marxista. Anche la grande stampa non ha consapevolezza di che cosa incarnino le Br nell’immaginario di una parte della gioventù italiana. Ricorda l’allora giudice Giancarlo Caselli, che aveva costruito l’istruttoria insieme con il procuratore capo della Procura di Torino Bruno Caccia: «Attorno alle Br era cresciuto un alone di indifferenza o quasi, nonostante la temerarietà delle loro azioni. Un importante e noto giornalista mi confessò candidamente di non saperne nulla». Una palese zona d’ombra che finirà per pesare nella comprensione del fenomeno per alcuni anni, forse quelli decisivi.

Torino è nel mirino delle Brigate rosse che quel processo non lo vogliono. Per tanti motivi, anche psicologici. I due capi, gli ideologici Curcio e Franceschini, espressione in nome della rivoluzione dell’incontro di un cattolico con un comunista, sono stati arrestati l’8 settembre del 1974 davanti ad un passaggio a livello nei pressi di Pinerolo. Gli uomini del generale Carlo Alberto dalla Chiesa gli hanno individuati, pedinati, sorpresi dopo un’indagine che ha preso a strascico le informazioni di un ex frate dalla vita avventurosa, «padre Leone», soprannominato «frate Mitra», al secolo Silvano Girotto. Ma in primo luogo Torino è il nodo politico e strategico per le Br. La città è il cuore dell’industria, la coscienza pulsante della classe operaia cui le Brigate rosse si rivolge per formare l’avanguardia rivoluzionaria, reclutare «fiancheggiatori» e «combattenti». E poi, Torino è sinonimo di Fiat, dello stabilimento di Mirafiori, il più grande d’Europa con i suoi 60 mila operai, l’emblema del capitalismo su cui mitizzare l’assalto al Palazzo d’Inverno in versione italiana da conquistare. Nella strategia dei capi delle Brigate Rosse il processo deve saltare, per più ragioni tra di loro concatenate. Curcio e Franceschini puntano a dare l’impressione di un caos dominante nel Paese alla vigilia delle elezioni nazionali del 20 giugno, presentate come un duro braccio di ferro tra Dc e Pci. Un Paese in crisi economica, con un’inflazione che comincia a prendere velocità, venato da una caduta etica e morale senza precedenti, assediato da scandali a ripetizione. E, in secondo luogo, dallo continuo slittamento dei tempi del dibattimento, le Br confidano in una reazione aggressiva dello Stato proprio all’interno del processo, un gettare la maschera che mostra il vero tratto di un’istituzione fascista, fintamente democratica. E il 17 maggio del 1976, il processo si aprì e si chiuse in un battibaleno. Gli imputati contestarono gli avvocati che a loro volta sostennero «l’inopportunità di celebrare il processo in campagna elettorale e di non essere nominati difensori d’ufficio». Il presidente della corte d’Assise Guido Barbaro lo rinviò al lunedì successivo.

Ma il copione che andò in scena fu peggiore di sette giorni. In aula lo scontro fisico tra imputati e forze dell’ordine prese il posto delle minacce. E all’esterno, Torino rivide i fumi dei candelotti lacrimogeni. Le Br avevano messo in moto in escalation collettiva di violenza senza precedenti. Il giudice Barbaro spostò ancora l’udienza al 7 giugno. E l’8 sul processo calò la morte: le Br mossero il primo vero e proprio atto di guerra contro Stato, l’uccisione del procuratore capo di Genova Francesco Coco e dei due uomini di scorta, l’agente Giovanni Saponara e l’appuntato Antioco Deiana. «Siamo stati noi» dissero gli imputati che in un crudele gioco delle parti, avevano ritrovato il ruolo di protagonisti. Il dibattimento fu rinviato al 16 settembre e da lì all’anno successivo, in un precipitato di debolezza per la democrazia. Che il 28 aprile conobbe a Torino l’uccisione di Fulvio Croce, presidente del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Torino, incaricato dal Tribunale della difesa d’ufficio. Era l’impressionante volume di fuoco scatenato dalle Br per mettere in ginocchio anche la città. Ma l’8 marzo del 1978, il processo ritornò nella pienezza delle sue funzioni. Otto giorni dopo, fu rapito il presidente della Dc, Aldo Moro. Uno snodo: iI Paese reagì e con esso Torino. Il sindaco Diego Novelli e il presidente della Regione Aldo Viglione furono d’impulso al presidente del Consiglio Giulio Andreotti, che varò una legge per la formazione della giuria popolare, senza la quale il processo non si sarebbe potuto svolgere. Un’altra storia, che racconteremo in un’altra puntata.

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