Watergate, la forza della stampa e le dimissioni di Richard Nixon

Pagine di storia - Il caso che scosse gli Stati Uniti e nulla fu più come prima 

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Watergate, la forza della stampa e le dimissioni di Richard Nixon

Tutto inizia il 17 giugno 1972: cinque uomini sono arrestati nel palazzo «Watergate» di Washington, sede del comitato elettorale del Partito democratico. In vista delle elezioni presidenziali del novembre ’72, i cinque spioni stanno installando sofisticate apparecchiature di intercettazione di conversazioni e telefonate, telecamere e macchine foto. Uno dei cinque è James McCord, ex impiegato della Cia e coordinatore della sicurezza del comitato per la rielezione del presidente Richard Nixon. Il 1° agosto sul conto in banca di uno degli arrestati trovano di 25 mila dollari che arrivano dai finanziamenti della campagna di Nixon.

Bob Woodward e Carl Bernstein, giornalisti investigativi del «Washington Post», pubblicano una serie di articoli con le rivelazioni del loro informatore, rimasto sconosciuto. Nel 1976 il regista Alan J. Pakula in «Tutti gli uomini del presidente», magistralmente interpretato da Robert Redford e Dustin Hoffman, ripercorrerà la vicenda sulla base del libro omonimo di Woodward e Bernstein.

L’Fbi scopre che il tentativo di introdurre «cimici» fa parte di un massiccio spionaggio condotto da personaggi della Casa Bianca e trova fondi occulti per finanziare l’operazione a danno dei democratici.

Il 7 novembre Nixon sconfigge il debole candidato democratico George McGovern ma Camera e Senato restano saldamente controllate dai democratici. Nel gennaio 1973 due membri del comitato repubblicano sono incriminati e condannati per spionaggio e altri quattro confessano. Nel maggio 1973 il presidente accetta le dimissioni di due consiglieri e annuncia che si assume le responsabilità del Watergate e di aver costretto alle dimissioni John Dean, incaricato di indagare sulla faccenda e che invece è coinvolto nello scandalo. I democratici votano all'unanimità la richiesta di affidare l'inchiesta a un personaggio estraneo all'amministrazione, individuato nel democratico Archibald Cox, e valutano l'ipotesi dell’«impeachment, messa in stato d’accusa» di Nixon. Dean racconta che Nixon era al corrente dei soldi usati per tacitare i personaggi coinvolti: le accuse si basano su 35 colloqui con il presidente. Si scopre che dal 1971 tutte le conversazioni e le telefonate alla Casa Bianca sono registrate su ordine di Nixon, che però rifiuta di consegnare i nastri delle registrazioni nascondendosi dietro ragioni di sicurezza nazionale.

L’opinione pubblica è inferocita e Nixon, nel maggio 1974, è costretto a rendere noto il contenuto di alcune registrazioni: nonostante le numerose manomissioni, emerge una vasta congiura ai danni dell'opposizione e per ostacolare la giustizia. Il 27 luglio 1974 la Camera dei rappresentanti autorizza l’«impeachment» per «comportamento contrario al mandato di presidente con grande pregiudizio della legge e della giustizia e con manifesta offesa del popolo degli Stati Uniti». Il 9 agosto Nixon, primo presidente nella storia Usa, si dimette. Un mese dopo il successore Gerald Ford gli condona i crimini e gli concede l’immunità.

In larga misura il successo elettorale di Nixon nel 1968 e nel 1972 e l'inizio dell'«era conservatrice» sono una reazione alle malefatte della contestazione e della «cultura alternativa» degli anni Sessanta. Secondo gli storici, Nixon adotta uno stile di governo non trasparente. Fbi e Cia si macchiano di vari reati, tra cui la violazione delle libertà. Il 1972 è un anno cruciale. Il segretario di Stato, il mitico Henry Kissinger (ora 94enne) amico di Gianni Agnelli, adotta una diplomazia segreta che, con la «politica del ping pong», porta al disgelo con la Cina comunista e alla visita di Nixon il 21-28 febbraio. Il 22-30 maggio visita l’Unione Sovietica e firma un trattato sulla limitazione dei missili antimissili e il 18 ottobre Usa e Urss concludono un trattato commerciale..

Il governo viola più volte i diritti individuali, come nello spionaggio contro Daniel Ellsberg, uno dei «geniacci del Pentagono», che consegna al «New York Times» i «Pentagon Papers», i documenti sui macroscopici errori del segretario alla Difesa Robert McNamara nella conduzione della guerra in Vietnam. La colpa più grave è che la Casa Bianca lede i diritti del Congresso e lo tiene all’oscuro sulla politica estera, tanto da non informarlo della guerra segreta condotta nel 1970 in Cambogia. Anche la guerra in Vietnam è una causa della crisi. Dopo l’allargamento del conflitto alla Cambogia e al Laos, Cina e Unione Sovietica premono sul governo comunista di Hanoi perché concluda il negoziato con gli Stati Uniti, cosa che avviene a Parigi  il 27 gennaio 1973 permettendo agli americani di ritirarsi dal Sudest asiatico. I comunisti stravincono e da quasi cinquant’anni non mollano il potere. Quasi dieci anni di guerra mai dichiarata costano agli Usa oltre 50 mila morti, 300 mila feriti e 110 miliardi di dollari. Per anni l’America vivrà con la «sindrome vietnamita» e agli occhi del mondo l'immagine imperiale esce fortemente compromessa con un conseguente ridimensionamento del suo ruolo nel mondo. Anche la dichiarazione della «non convertibilità del dollaro in oro» del 1971 segna il tramonto dell’impero americano sul sistema monetario internazionale definito dagli «accordi di Bretton Woods» alla fine della seconda guerra mondiale. 

In sostanza, la protesta sociale, lo scontro tra potere esecutivo e legislativo, il desiderio di rivincita dei democratici e la condotta palesemente menzognera di Nixon scatenano la crisi. La presidenza si conclude ingloriosamente. Già nell'ottobre 1973 il vicepresidente Spiro Agnew è costretto a dimettersi per illeciti finanziari ed evasioni fiscali. Due cose gli americani non perdonano: non pagare le tasse e dire bugie, tanto più se spiattellate dal presidente. E l’America non perdona l’autoritarismo della Casa Bianca sul Congresso, che recupera in pieno i propri poteri con il «War Powers Act» del 1974 che restituisce alla Camera il controllo sulle decisioni militari del capo.

Quarantatre anni dopo la fine della «presidenza imperiale» del 37° presidente Richard Milhous Nixon, anche il 45° presidente Donald John Trump - quello che toglie ai poveri per dare ai ricchi e sconvolge il mondo con la sua politica nefasta – sembra correre verso un’altra ingloriosa fine. La storia non insegna proprio nulla?

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