La magia di Akhnaten di Philip Glass con Orchestra e Coro del Teatro Regio
Una rappresentazione magnifica all'Auditorium Giovanni Agnelli
Il grande evento di Mito della scorsa settimana è stata l’esecuzione all’Auditorium Giovanni Agnelli in prima italiana e in forma di concerto dell’opera Akhnaten di Philip Glass con Orchestra e Coro del Teatro Regio diretti da Dante Anzolini. L’opera dell’artista di Chicago (di formazione americana con importanti esperienze europee)non è nuova (1983), ma certo è funzionale a quella sagace operazione di marketing tesa a dare risonanza al rinato gioiello del Museo Egizio di Torino, sulla scia dell’omonima pièce in prosa realizzata dal regista Valter Malosti lo scorso giugno con la giovane compagnia di attori del TST.
Ma chi era Akhnaten, il faraone vissuto oltre 3mila anni fa nell’antico Egitto, sposo della bella Nefertiti dal collo di cigno? Era un visionario, un “despota illuminato” come lo definì Freud che gli dedicò un saggio ravvisando in lui il primo monoteista della storia, progenitore della religione mosaica. Ribelle contro il vecchio ordine dominato dal pantheon politeista, era adoratore di Ra o Atòn, Padre dei Padri, legislatore universale del mondo, dispensatore di calore e gioia. Proprio così lo vediamo esemplificato dal controtenore Rupert Enticknap nella scena centrale dell’opera con l’Inno al Sole, prefigurazione del Salmo 104 dell’Antico Testamento che difatti Glass fa intonare subito dopo in ebraico dal coro. E’ forte l’anelito alla trascendenza in Akhnaten, che in onore del suo dio fonda la Città dell’Orizzonte, architettura fatta di luce e spazi aperti.
Un’utopia però accarezzata e condivisa solo nell’armonia della stretta cerchia domestica, mentre fuori urla la follia che mina e rovescia con violenza il suo regno, sino al ripristino del vecchio ordine. La partitura di Glass si pone a metà tra opera e melologo, prevedendo quest’ultimo ampie inserzioni in prosa dello Scriba (affidato qui a Valter Malosti) accanto ai ruoli vocali di Nefertiti (il contralto Gabriella Sborgi),della regina madre Tye (il soprano Valentina Valente), del rivale Horemhab (il baritono Giuseppe Naviglio), oltre ai comprimari. L’esecuzione in forma oratoriale nulla toglie: crediamo –anzi- che questa sia la veste più appropriata, contribuendo a uno stile ieratico che si aggiunge a una particolarissima patina antiquaria: si vedano ad esempio il ricorso ad idiomi semitici come l’antico egiziano o l’accadico per alcune pagine vocali che il Coro del Regio (istruito da Claudio Fenoglio) esegue con sorprendente disinvoltura; il ritmo scandito In ostinato” che l’orchestra esegue con l’ipnotica ripetitività di una clessidra; la linea contrappuntistica di microdisegni melodici che sono il corrispettivo delle iscrizioni cuneiformi; la vocalità assai spoglia scolpita sul dettato del libretto redatto da Glass a quattro mani con Shalom Goldman; la scelta timbrica che privilegia il colore cupo.
Tutti elementi, insomma, funzionali a ricreare una dimensione sprofondata nella lontananza di millenni. E poi c’è sullo sfondo la sequenza di filmati con reperti del Museo Egizio di Torino (ma anche del Pergamon di Berlino) con la magnifica statuaria e i simboli del pantheon egizio: il sistro sacro alla dea Iside, l’ibis, teste leonine e d’ariete, il cobra alato e ancora papiri con geroglifici, steli e maschere funerarie in oro e lapislazzuli. Alto gradimento del folto pubblico.
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