Di cosa ha bisogno davvero la scuola

Secondo alcuni l’istruzione impartita ai giovani sui banchi di scuola è ormai una vecchia signora fuori dal tempo, piena di buoni principi, ma scavalcata dalle nozioni che viaggiano su Internet

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Di cosa ha bisogno davvero la scuola

Nei giorni scorsi è stato pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale», dopo lunga attesa, il bando di concorso per l’assunzione di 2.425 nuovi dirigenti scolastici. La notizia non riguarda soltanto i docenti interessati alla carriera direttiva nella scuola. La notizia è buona ed ha una eco più ampia perché viene a colmare una carenza di personale che ha portato circa un terzo delle scuole italiane a funzionare senza un capo istituto. Di anno in anno anche l’Ufficio scolastico regionale del Piemonte ha dovuto supplire con dirigenti temporanei («reggenti») negli istituti senza titolare.

L’arrivo, comunque non prima di un anno, dei nuovi dirigenti contribuirà a migliorare la vita delle scuole. Il buon funzionamento di un istituto comincia infatti dal vertice della scuola e cioè dalla direzione e dalla sua capacità di ‘fare squadra’, di creare un clima educativo appropriato, di promuovere una visione collegiale della vita scolastica, di stabilire rapporti fruttuosi con le famiglie. Ecco perché normalizzare la situazione delle sedi senza dirigente significa porre un importante tassello per disporre di un servizio formativo migliore.

Naturalmente non tutto dipende dalla dirigenza e nemmeno si vuol tessere l’elogio «dell’uomo solo al comando», perché nella scuola ci sono molti altri attori da cui dipende la qualità dell’istruzione (i docenti, gli alunni, le famiglie), ma una leadership adeguata capace di farsi guida autorevole costituisce un elemento decisivo così come accade in tutte le organizzazioni. La conferma viene anche dalle ricerche internazionali: le scuole dai risultati più soddisfacenti sono quelle in cui opera un bravo dirigente.

Se queste considerazioni valgono in generale, esse sono tanto più valide in questo momento in cui l’attuazione delle disposizioni contenute in un decreto del marzo 2013 (che mette a regime il Sistema nazionale di valutazione) sta faticosamente, ma costruttivamente, impegnando i singoli istituti a realizzare una ricognizione sui diversi aspetti della vita scolastica interna e, in relazione alle criticità individuate, a predisporre appositi piani di miglioramento. Si tratta di un passaggio fondamentale per una crescita complessiva del sistema scolastico.

La nozione di miglioramento non è tuttavia così semplice come potrebbe sembrare a una prima analisi e merita perciò qualche ulteriore chiarimento. Secondo l’approccio di chi, ad esempio, osserva la questione con una speciale attenzione al rapporto costi-benefici e alla spendibilità del ‘prodotto’ finale la qualità della scuola dipenderebbe soprattutto dall’efficienza dell’organizzazione scolastica fuori e dentro l’aula, dall’impiego di metodi di insegnamento validati anche sotto il profilo sperimentale, dal ricorso a periodici monitoraggi sul livello degli apprendimenti, dall’impiego di pratiche meritocratiche per stimolare il senso della competizione.

Migliorare la scuola, secondo questa lettura, vorrebbe dire potenziarne gli aspetti organizzativi, regolare con dettagliate procedure i tempi degli apprendimenti e della loro misurazione/valutazione, raccogliere dati per tenere sotto controllo l’andamento della scuola (abbandoni, ripetenze, turn over dei docenti e dei dirigenti, provvedimenti disciplinari, confronti con scuole dello stesso tipo operanti in ambienti analoghi, ecc.).

Chi invece reputa che la qualità dipenda soprattutto dalla capacità educativa dei docenti ritiene prioritario guardare agli insegnanti non solo come a collaudati ‘tecnici dell’insegnamento’, ma ad educatori capaci di creare un clima favorevole all’apprendimento, disponibili a lavorare insieme e pronti ad autovalutare prima di tutto l’efficacia della loro azione didattica. Migliorare la scuola in questo caso significherebbe lavorare soprattutto sulle competenze professionali, sul clima scolastico, sulle buone relazioni con gli allievi e cioè su quelle azioni che a monte possono condizionare l’esito degli apprendimenti.

Se vogliamo collegare miglioramento e qualità scolastica non possiamo accontentarci di pratiche centrate soprattutto sulla organizzazione scolastica. È questa una tentazione che percorre molti ambienti scolastici e che rinvia a una visione tecnocratica e funzionalista della scuola. Un’azione di miglioramento non può invece eludere di chiedersi a «cosa serve la scuola» nel momento in cui da più parti cominciano a levarsi istanze critiche sulla sua utilità e spesso viene messa in discussione la sua dimensione educativa in nome della opinabilità dei valori.

Fino a qualche tempo fa era impensabile questo interrogativo: era unanimemente acquisito che attraverso la scuola ci si impadroniva del sapere necessario per la vita, si ampliava la socializzazione familiare e si entrava a far parte di una tradizione. Non a caso, il confronto sulla scuola si misurava proprio su questo aspetto: quale dovesse essere l’ethos nel quale situare la formazione delle giovani generazioni, dando il resto come scontato. Chi ha vissuto nella scuola gli anni ’70 e ’80 conosce bene i rischi dell’ideologismo scolastico, prezzo che era tuttavia compensato dal confronto tra visioni forti e alte della funzione dell’istruzione.

Oggi la realtà è molto diversa perché negli ultimi decenni si è fatto strada uno stile di crescita giovanile molto meno dipendente dagli adulti (salvo quando essi sono utili a risolvere dei problemi pratici e a svolgere funzioni consolatorie) e nel contempo si sono indeboliti i quadri valoriali sostituiti dall’inseguirsi di emozioni temporanee. La scuola sembra una vecchia signora piena di buoni principi, ma ormai scavalcata dalla rapidità delle nozioni apprese dal web, poco appetibile perché luogo più di fatica che di piacere. Perché andare a scuola e annoiarsi quando molte cose si possono accostare quando servono e senza fatica?

Marco Lodoli, scrittore e insegnante, ha immaginato paradossalmente (ma non troppo) che estendendo la credibilità degli strumenti digitali oltre un certo limite tra qualche tempo si potrebbe fare a meno non solo dei libri ma anche dei docenti. La sfiducia nella scuola è il primo passo verso l’ignoranza e l’ignoranza, a sua volta, è l’anticamera del declino della vita associata.

Il confronto in atto sul miglioramento rappresenta perciò un’occasione unica per far compiere al dibattito scolastico un salto di qualità, transitando dall’analisi delle procedure (come migliorare il funzionamento scolastico, il che naturalmente non guasta) a una riflessione strategica cadenzata sul futuro dei giovani (come salvaguardare la dimensione culturale della scuola e le sue prerogative educative).

Possiamo pensare che una scuola solo più efficiente sia in grado di rispondere a questioni impegnative come la mitizzazione degli strumenti digitali, la tendenza alla semplificazione dei contenuti scolastici, la valorizzazione delle dimensioni non cognitive degli alunni (soft skills), la conservazione della memoria comune? Dobbiamo preoccuparci principalmente di coltivare le emozioni degli allievi oppure la scuola è anche un’opportunità per fare esercizio di razionalità e di immergersi con gli strumenti della cultura nella realtà e con questa saper stabilire un confronto positivo? Possiamo restare indifferenti di fronte alla diffusa convinzione che i libri non servono e che l’unico esercizio didattico valido è il problem solving? È pensabile che tematiche come l’equità e il merito restino confinate nei dibattiti tra specialisti?

Se la qualità della scuola non sarà superficialmente identificata nel funzionamento scolastico e il miglioramento saprà misurarsi con le questioni che toccano i significati profondi della vita scolastica sarà davvero colta l’opportunità per sottrarre la scuola all’idea che «non serve». Speriamo che i nuovi dirigenti scelti attraverso il concorso avviato in questi giorni tengano ben presente questo obiettivo.

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