Buon compleanno cara Radio

La radio nel Novecento è stata tutto, almeno fino all’arrivo della televisione

Parole chiave: radio (3), televisione (6), anniversario (18), comunicazione (28)
Una vecchia radio

Il problema non è celebrare la radio, e neanche chiedersi se gode di buona salute. Certo la gode: è sotto gli occhio (meglio, a portata di orecchio) di tutti. Il problema è chiedersi che cosa ha rappresentato la radio per il secolo scorso, qual è il suo “specifico” attuale (ciò che la distingue dagli altri media) e, soprattutto, se il linguaggio della radio ha influenzato gli altri media oppure sta vivendo un suo percorso bello, ma di nicchia.

Nei paesi occupati dalla Germania nazista si ascoltava “Radio Londra” con trepidazione e timore, e si rischiava anche la vita. Forse i totalitarismi (nazismo, fascismo e stalinismo) non sarebbero stati possibili senza la radio: “se negli anni di Hitler la TV fosse già stata diffusa su larga scala, egli sarebbe rapidamente sparito. Se fosse arrivata prima, non ci sarebbe mai stato un Hitler” (McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 1964). In sostanza, Hitler sarebbe sembrato un pagliaccio, come infatti lo dipinge poi Chaplin nel “Grande dittatore”. Ma anche Mussolini non è da meno: si veda il bel film “Vincere” di Marco Bellocchio che ci restituisce i suoi primi piani durante lo sforzo oratorio. La radio invece suggestionava, la voce attraverso la radio di massa chiamava tutti all’ascolto del capo, tutti intorno al mobile-radio, come si usava allora incastonare l’apparecchio. Il capo manteneva così la sua aurea “tribale”: là sul balcone di Piazza di Venezia, lontano, una  figura che tuonava ma che non si poteva osservare con freddezza, come in parte si può fare oggi con la televisione (i politici che balbettano davanti al Di Pietro nei processi di Mani Pulite teletrasmessi).

Ma la radio è stata anche lo strumento che Franklin Delano Roosevelt ha usato per convincere gli americani che ce la potevano fare: così per il New Deal, così per la seconda guerra mondiale. Nei famosi discorsi al caminetto trasmessi via radio il presidente americano poteva anche evitare di nascondere il suo handicap: di fatto su una sedia a rotelle (per questo motivo a Yalta i tre grandi, Curchill, Stalin, e appunto Roosevelt sono sempre ripresi seduti dalle macchine fotografiche e da presa). Oggi in TV sarebbe impossibile.

E poi, la radio è stata la tentazione e la dannazione del grande poeta Erza Pound quando in Italia inneggiava al suo Ben (Benito, Mussolini) in trasmissioni antisemitiche; alla radio è  avvenuto anche l’exploit magico di Orson Welles: “la famosa trasmissione di Orson Welles sull’invasione dei marziani era una semplice dimostrazione della portata onnicomprensiva e totalmente coinvolgente dell’immagine auditiva della radio. E fu Hitler a trattare sul serio la radio alla maniera di Welles” (sempre McLuhan del 1964).

La radio ha anche dato un impiego dignitoso a Orwell e a Gombric: il primo voce per la BBC durante la guerra, il secondo grande studioso di storia dell’arte che proprio alla radio impara ad essere comprensibile per il grande pubblico.

Per noi italiani invece la radio è l’annuncio di Badoglio dell’8 settembre: grande arte equivoca del dire e del non dire: sarebbe stato diverso e più difficile in televisione perché mentire, mistificare, demistificare senza “metterci la faccia” è più facile.

Oggi in televisione non sentiamo tanto ciò che dicono i politici (sempre le stesse cose per giorni e giorni), ma osserviamo come lo dicono, se hanno il coraggio di dircelo “in faccia”.

I goal alla radio erano stupendi perché noi eravamo costretti a completare con la nostra “visione” l’azione, ad illustrare il racconto e, come per il romanzo, possiamo farci l’idea “fisica” che vogliamo.

 

Oggi la radio è il mezzo di comunicazione precedente l’era digitale più vicino agli smartphone: è portatile, si può sentire ovunque e soprattutto posso fare altro mentre l’ascolto. Questo è il suo più grande e apprezzato “specifico”: la radio copre gli interstizi della vita, non chiede nessun protagonismo, ma accompagna. Si sente in modo particolare in auto; ma anche mentre si cucina; a volte, e per qualcuno, studiando; sotto la doccia, nei garage dei meccanici, nei supermercati mentre si fa la spesa, sempre altrove, sempre in altri momenti.

Infatti noi viviamo un epoca che cerca sempre di più di riempire i vuoti esistenziali degli spostamenti, delle attese, dei momenti ripetitivi della nostra vita quotidiana.

Gli smartphone e la radio sono lì per questo, li usiamo soprattutto in quel momento, ma la seconda rispetto al primo non ha bisogno della mani. Posso ascoltare e intanto fare altro.

Ecco allora due tipi di trasmissioni: quella che riempie di parole lo “stacco” tra un pezzo musicale e l’altro; parole a volte intelligenti, spesso spiritose, non di rado ridondanti e noiose. Oppure una radio colta che affronta problematiche spinose, dibatte pacatamente, richiede l’alternanza chiara della voci presenti (la rissa televisiva in solo audio sarebbe insopportabile e di fatto “non trasmissibile”). Una radio inoltre senza particolari preoccupazioni di budget perché le parole costano poco rispetto alle immagini.

Ma la televisione, grande nemica della radio al suo apparire, che ha portato via pubblico e budget alla radio, ha davvero cercato un linguaggio nuovo?

A volte sì, in molti casi della sua storia sì, purtroppo però oggi ricalca proprio il modello radiofonico: eterni “talkshow” dove dalla mattina televisiva fino alla sera tardi si alternano persone (politici e giornalisti) disposti “a parlare” ad oltranza sempre degli stessi argomenti e con le stesse argomentazioni fino alla saturazione del pubblico e di loro stessi.

Come è successo alla pittura che, affrancandosi con l’avvento della fotografia del bisogno-utilità del trasmettere ai posteri l’immagine dei “viventi” e di ciò che era lontano (paesaggi-natura), si è resa disponibile e aperta alle grandi avventure del cubismo/astrattismo/ arte concettuale  ecc., così la radio è stata ristrutturata dal media che le è succeduto, la televisione. Oggi la radio è pacata, riflessiva, a volte pedagogica (evviva!): “è soltanto la TV che ha liberato la radio da queste pressioni … da quando la televisione ha accettato questo peso, … la radio ha potuto diversificarsi e dar vita a un servizio a livello regionale e locale come non aveva mai fatto neanche all’epoca ormai lontana dei radioamatori”. Chi parla è sempre Marshall McLuhan, cinquantanni fa esatti.

Viva la radio, viva i suoi 90 anni portati meglio dei primi.

Per gentile concessione - Testo pubblicato dall'inserto culturale "L'ordine" de LA PROVINCIA di Como, domenica 12 ottobre 2014

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