Ripartire da Firenze per una nuova prassi ecclesiale e civile

Una analisi sul rapporto tra cattolici e politica, chiesa italiana e bisogni del paese dopo il convegno ecclesiale decennale

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Ripartire da Firenze per una nuova prassi ecclesiale e civile

E’ un’epoca di passaggio per la presenza sociale e politica dei cattolici in Italia, ma anche in Europa.  Venti anni di declino, l’attuale sostanziale afonia, l’incapacità di andare oltre la semplicistica considerazione che la diaspora, determinata da una classe dirigente che non ha saputo cogliere e portare innanzi il testimone passatogli, vada bene perché in fin dei conti permette di piazzare singoli e mantenere qualche strapuntino di potere, non possono non determinare la necessità, fin anche la voglia, di superare tanti risultati negativi (e forse anche tanta mediocrità!).

Il Magistero dei Papi traccia la strada: Benedetto XVI ha più volte incitato la formazione di una nuova generazione di politici cattolici – senza mai parlare di una formazione ed una presenza individuale, Papa Francesco si pone in questa sequela cogliendo l’urgenza che i laici cattolici tornino ad essere protagonisti del dibattito e dell’azione politica con il proprio bagaglio di fede e cultura che forma una visione sociale. Siamo ben oltre ormai la sterile discussione di certa dirigenza: a destra? Al centro? A sinistra? Solo la dimensione del pre-politico e poi “ognuno per sé e Dio per tutti”?

La risposta si trova riprendendo don Primo Mazzolari: “né a destra, né al centro, né a sinistra ma in alto”! “In alto” per non morire di tattica, “in alto” per permettere alla Chiesa di non svolgere una eccessiva supplenza istituzionale dei laici sul piano politico che la distrae dal suo dovere di sobillare le coscienze e richiamarle alla coerenza senza mediazioni al ribasso, “in alto” per ridare un orizzonte ai giovani cattolici chiamati ad essere la classe dirigente del futuro destinata ad impegnarsi per un mondo migliore, “in alto” per non cadere nel pantano di un indistinto moderatismo che diluisce originalità e passione, “in alto” per non perdersi dietro ai capi-popolo di turno stretti tra populismo e visione corta.

“In alto” insomma per poter riprendere il filo della presenza politica dei cattolici, che in Italia ha avuto come tradizione di riferimento quella popolare e democratico cristiana (senza disconoscere le presenze progressiste e conservatrici che, però, sono altro): in questi giorni proprio Papa Francesco ha indicato uno stile, un metodo, che si radicano nella tradizione della Chiesa, nei documenti vivi del Concilio Vaticano II, nell’umanesimo cristiano da dispiegare nella storia in cui si vive. Il Santo Padre, nel suo Messaggio in occasione della Giornata di studio organizzata dal Pontificio Consiglio per i Laici, in collaborazione con la Pontificia Universitàdella Santa Croce, sul tema “Vocazione e missione dei laici. A cinquant’anni dal Decreto conciliare “Apostolicam actuositatem” “ ricorda infatti che i laici non sono membri di second’ordine del Popolo di Dio ma “come discepoli di Cristo che, in forza del loro Battesimo e del loro naturale inserimento ‘nel mondo, sono chiamati ad animare ogni ambiente, ogni attività, ogni relazione umana secondo lo spirito del Vangelo, portando la luce, la speranza, la carità ricevuta da Cristo in quei luoghi che, altrimenti, resterebbero estranei all’azione di Dio e abbandonati alla miseria della condizione umana. Nessuno meglio di loro può svolgere il compito essenziale di «iscrivere la legge divina nella vita della città terrena» (Gaudium et spes)””.

La costruzione della città terrena compete all’esigente servizio della politica, alta forma di carità per riprendere il grande Beato Paolo VI: è un servizio da cui i cattolici non possono ritirarsi perché è la loro stessa fede, la propria intima identità cristiana, che li sobilla all’impegno non solitario e li inquieta per la esigente dimensione della custodia del creato che esso comporta secondo le indicazioni conciliari. Il Papa poi, sgombrando il campo dall’idea dei laici quali truppe cammellate “al servizio della gerarchia e semplici esecutori di ordini dall’alto”, indica la necessità di pastori non più estranei all’impegno di laici troppo spesso formati (quando va bene!) ed abbandonati: egli infatti conclude il messaggio pregando perché pastori e fedeli abbiano “nel cuore la stessa ansia di vivere e attuare il Concilio e portare al mondo la luce di Cristo”  in quanto insieme, non separatamente, non sostituendosi gli uni agli altri, sappiano farsi interpellare dal Concilio e quanto donato dallo Spirito Santo, quanto trasmesso dalla Santa Madre Chiesa, “sia sempre di nuovo capito, assimilato e calato nella realtà”!

Il richiamo alla realtà è continuo, forte, necessario: ricorda che il cristianesimo è fede incarnata, che Cristo è “via verità e vita“, che la santità è immersa nella realtà e che, come Charles Peguy evidenziò in vari suoi scritti, faire l’ange, estraniarsi dalla storia, non è cristiano. Occorre essere profondamente realistici nel senso di immersi nella carne dell’umanità, con tutte le conseguenze in termini di impegno, sfide, rischi. Non è forse questo l’autentico movimento della politica per un cattolico, che non degrada in ideologia, astrattismo, interesse personale, immoralità?

Il messaggio citato fa il paio in questi giorni con lo straordinario discorso ai delegati del V Convegno Ecclesiale di Firenze – radicato nell’Esortazione “Evagelii Gaudium” – con cui Papa Francesco ha richiamato tutti a volgere lo sguardo “in alto”, all’Ecce Homo, al centro del magnifico affresco della Cattedrale fiorentina, per scorgere il centro dell’umanesimo cristiano, Gesù Cristo! Evidenzia che tre caratteristiche dell’umanesimo cristiano sono umiltà, disinteresse, beatitudine e nascono proprio dall’umanità del Figlio di Dio. Il Papa non dà conseguentemente una idea astratta di uomo ma si rifà ai sentimenti di Gesù  Cristo – presentandone appunto tre che sono le caratteristiche di cui sopra –: “essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni”. Vivere e prendere decisioni sono azioni fondanti anche della buona politica che non cede così a demagogia e populismo!

Il metodo lo ritroviamo nei passaggi relativi ai pastori accanto al proprio popolo; alla raccomandazione a tutta la Chiesa italiana per “l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale … cercando il bene comune”; alla capacità di dialogo e di incontro che non significa negoziare “negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti”; al vincolo d’amore tra gli esseri umani “su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile”.

Il Papa esalta le identità che, confrontandosi, costruiscono la comunità dove la Chiesa non è estranea ed i credenti sono pienamente cittadini chiamati all’impegno portando la propria visione della società senza timori per la difesa dei propri principi che, naturalmente, come detto, non sono astrazioni, strumenti di mediazioni, pezzi di curricula utili per carriere personali: “la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose”. E come lo si può realizzare questo rinnovato contributo per la costruzione della società comune? Guardando ai giovani, alla nuova generazione di politici cattolici perché il Pontefice fa appello a loro dando chiara evidenza dell’importanza dell’impegno politico concreto e rinnovato: “faccio appello soprattutto «a voi, giovani, perché siete forti», diceva l’Apostolo Giovanni (1 Gv 1,14). Giovani, superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire (cfr 1 Tm 4,12). Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore. Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni”.

Diventa poi chiaro che questo appello non rientra in una dimensione individualistica ma comunitaria: non si può rispondere ad esso con gli schemi desueti degli ultimi venti anni, con una dispersione di forze, con vecchi politici ormai logori e sganciati dal popolo, con strumenti politico-partitici pantagruelici che pretendono di mangiarsi tutto e tutti, fin anche la nazione cancellando ogni identità e visione. Anche il patrimonio della presenza politica dei cattolici rientra in quel genio del cristianesimo italiano a cui Papa Francesco invita a credere, “che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese”.

Si può concludere che i cattolici, che sono richiamati all’impegno e vogliono ritrovarsi e riprendere il filo della propria presenza politica, devono ripartire dall’esperienza cristiana intesa oggi più di ieri come “principio di non appagamento e di mutamento dell’esistente” (Aldo Moro) ritrovando la responsabilità ed i rischi dell’autonomia!

Allegato: Convegno ecclesiale.jpg (0 B)
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