Rilanciare la coscienza universitaria

Il racconto di una settimana davvero speciale che ha creato relazioni, legami e voglia di impegnarsi nell'ambiente dei saperi, delle conoscenze a servizio dell'uomo

Parole chiave: universitari (17), chiesa (665), padova (3), pastorale (60)
Rilanciare la coscienza universitaria

Si è conclusa sabato 14 novembre, presso il Convento dei Frati Minori in Via Sant’Antonio da Padova, la settimana comunitaria rivolta agli universitari promossa dalla pastorale universitaria e dal Centro Diocesano Vocazioni Trenta ragazzi, tra maschi e femmine, hanno deciso di partecipare, un po’ Si è conclusa sabato 14 novembre, presso il Convento dei Frati Minori in Via Sant’Antonio da Padova, la settimana comunitaria rivolta agli universitari di Torino. Trenta ragazzi, tra maschi e femmine, hanno deciso di partecipare, un po’ sotto invito dei due Don di riferimento, Luca e Mario, un po’ per “sentito dire”. Sì, esatto, perché la settimana comunitaria è anche passaparola.

Ad accompagnarci in questi sei giorni di condivisione abbiamo trovato al nostro fianco due seminaristi del gruppo ProVocazione, Emanuele e Riccardo, che si sono messi entrambi a nostra completa disposizione; e due suore: Carmela e Franca.
Difficile dire che cosa sia stata la settimana comunitaria, perché è stata tante cose. Io che ero partita con la convinzione – la speranza – di trovare risposta non a tutte le mie domande, ma almeno a qualcuna, mi sono dovuta subito ricredere: la settimana comunitaria non è la settimana dell’illuminazione. O comunque non lo deve necessariamente essere. La sua particolarità risiede nel fatto che succede tutto quello che non ti aspetti, tutto quello che, in fondo, non avevi neanche immaginato.

È stata un’occasione da prendere al volo, di quelle che ti capitano per caso – o, forse, di quelle che ti vai anche un po’ a cercare. Perché ne hai bisogno. Nel mio caso, per esempio, se l’invito mi è semplicemente capitato tra le mani, la decisione di voler partecipare è stata abbastanza sofferta: doveva essere un’opportunità da vivere insieme ad alcuni miei amici, ragazzi che già conoscevo, ma “purtroppo” io ho preso l’ultimo posto disponibile e allora mi sono trovata “sola”. Addirittura ho pensato di trovare una scusa e di ritirarmi. Ma avete presente quelle cose che sembrano calcolate? Che neanche a farla apposta? “Armati di coraggio e vai”, mi sono detta. Vi posso assicurare che, ogni tanto, è davvero bello ricredersi e pensare sinceramente che ne sia valsa la pena, perché mi sono resa conto subito, nell’immediato, di quanto sarei stata sciocca a non andare. “Mettiti in gioco”. “Decolla”. Acquisita la velocità necessaria che garantisca la portanza delle ali e quindi il sostentamento in volo.

Vivere per qualche giorno in una grande famiglia porta immancabilmente l’altro dentro le proprie scelte. Sono stati inaspettati i legami che si sono creati in pochissimo tempo e la fiducia nell’altro, già intrinseca. È motivante sapere che c’è sempre qualcuno che ti aspetta, quando torni a casa da una giornata stancante, pronto ad ascoltarti per davvero. E viceversa. Così scopri Dio nelle persone. Scopri Dio nella danza. Scopri Dio tra i poveri. Sì, perché grazie ad Alessandro, abbiamo avuto l’opportunità di servire la mensa dei poveri ed è qui che ho imparato la lezione più grande: l’umiltà. Dire: “Io non ce la faccio e allora chiedo a Te, mi affido a Te”. Quando poi scopri questo, allora non ti pesa alzarti presto la mattina per fare le lodi, non ti pesa stare in silenzio, perché è un silenzio che parla. Che ti racconta. Che ti interroga.

Ad arrivare al cuore non è stato solo questo. E’ stato anche l’ascoltare le testimonianze di chi ne ha passata qualcuna in più di te, di che ci crede. Ascoltare. A prendersi cura di noi c’erano anche due famiglie: Emanuela, Guido e il piccolo Riccardo; Arturo, Barbara e la piccola Sofia. Sofia e Riccardo sono stati i figli di non due, ma di quaranta persone, non solo per le coccole, bensì perchè sono stati loro ad insegnarci molto. A farci vedere come ci si può fidare delle persone, della Persona. A ricordarci che quello di cui abbiamo bisogno è necessariamente anche quello che desideriamo. Ci hanno insegnato a non tenere nascosto se stiamo male, a “dire” quando abbiamo bisogno dell’altro. A chiamarLo.

La bellezza –e la difficoltà- della settimana comunitaria sta anche e soprattutto nel fatto che, in verità, non si perdono le proprie abitudini. Infatti, vai all’Università ordinariamente e se hai allenamenti di qualche sport, li puoi fare, svolgi le commissioni che devi. Perché il senso è imparare a inserire nella quotidianità qualcos’altro. Qualche altro elemento. Precisamente, quell’Elemento. Imparare a rifletterci su quotidianamente. Non solo quando ci sentiamo “costretti”.
Imparare dal fallimento. Crescere grazie ad esso. Grazie a Lui. Con Lui. E fare anche un po’ come Bartimeo : balzare in piedi, gettare il mantello e andare e seguirLo. (Af)fidarsi ciecamente.

La settimana comunitaria è qualcosa che ti entra nelle vene e fa ricircolare il tuo sangue: lo pulisce, gli da ossigeno. Quello che ti mancava. È un modo di vivere. Un’impresa collettiva, un atteggiamento, che cerca di sostituire ad ogni punto esclamativo un punto interrogativo. È crescere. È pensare. Pensare con lode. sotto invito dei due don di riferimento, Luca e Mario un po’ per “sentito dire”. Sì, esatto, perché la settimana comunitaria è anche passaparola.
Ad accompagnarci in questi sei giorni di condivisione abbiamo trovato al nostro fianco due seminaristi del gruppo ProVocazione, Emanuele e Riccardo, che si sono messi entrambi a nostra completa disposizione; due suore: Carmela e Franca e la fantastica comunità dei frati Pietro, Francesco, Simone, Marco e Benedetto, ognuno con i suoi carismi.

Difficile dire che cosa sia stata la settimana comunitaria, perché è stata tante cose. Io che ero partita con la convinzione – la speranza – di trovare risposta non a tutte le mie domande, ma almeno a qualcuna, mi sono dovuta subito ricredere: la settimana comunitaria non è la settimana dell’illuminazione. O comunque non lo deve necessariamente essere. La sua particolarità risiede nel fatto che succede tutto quello che non ti aspetti, tutto quello che, in fondo, non avevi neanche immaginato.
È stata un’occasione da prendere al volo, di quelle che ti capitano per caso – o, forse, di quelle che ti vai anche un po’ a cercare. Perché ne hai bisogno. Nel mio caso, per esempio, se l’invito mi è semplicemente capitato tra le mani, la decisione di voler partecipare è stata abbastanza sofferta: doveva essere un’opportunità da vivere insieme ad alcuni miei amici, ragazzi che già conoscevo, ma “purtroppo” io ho preso l’ultimo posto disponibile e allora mi sono trovata “sola”. Addirittura ho pensato di trovare una scusa e di ritirarmi. Ma avete presente quelle cose che sembrano calcolate? Che neanche a farla apposta? “Armati di coraggio e vai”, mi sono detta. Vi posso assicurare che, ogni tanto, è davvero bello ricredersi e pensare sinceramente che ne sia valsa la pena, perché mi sono resa conto subito, nell’immediato, di quanto sarei stata sciocca a non andare.

“Mettiti in gioco”. “Decolla”. Acquisita la velocità necessaria che garantisca la portanza delle ali e quindi il sostentamento in volo. Vivere per qualche giorno in una grande famiglia porta immancabilmente l’altro dentro le proprie scelte. Sono stati inaspettati i legami che si sono creati in pochissimo tempo e la fiducia nell’altro, già intrinseca. È motivante sapere che c’è sempre qualcuno che ti aspetta, quando torni a casa da una giornata stancante, pronto ad ascoltarti per davvero. E viceversa. Così scopri Dio nelle persone. Scopri Dio nella danza. Scopri Dio tra i poveri. Sì, perché grazie ad Alessandro, abbiamo avuto l’opportunità di servire la mensa dei poveri ed è qui che ho imparato la lezione più grande: l’umiltà. Dire: “Io non ce la faccio e allora chiedo a Te, mi affido a Te”. Quando poi scopri questo, allora non ti pesa alzarti presto la mattina per fare le lodi, non ti pesa stare in silenzio, perché è un silenzio che parla. Che ti racconta. Che ti interroga.
Ad arrivare al cuore non è stato solo questo. E’ stato anche l’ascoltare le testimonianze di chi ne ha passata qualcuna in più di te, di che ci crede. Ascoltare.

A prendersi cura di noi c’erano anche due famiglie: Emanuela, Guido e il piccolo Riccardo; Arturo, Barbara e la piccola Sofia. Sofia e Riccardo sono stati i figli di non due, ma di quaranta persone, non solo per le coccole, bensì perchè sono stati loro ad insegnarci molto. A farci vedere come ci si può fidare delle persone, della Persona. A ricordarci che quello di cui abbiamo bisogno è necessariamente anche quello che desideriamo. Ci hanno insegnato a non tenere nascosto se stiamo male, a “dire” quando abbiamo bisogno dell’altro. A chiamarLo.

La bellezza –e la difficoltà- della settimana comunitaria sta anche e soprattutto nel fatto che, in verità, non si perdono le proprie abitudini. Infatti, vai all’Università ordinariamente e se hai allenamenti di qualche sport, li puoi fare, svolgi le commissioni che devi. Perché il senso è imparare a inserire nella quotidianità qualcos’altro. Qualche altro elemento. Precisamente, quell’Elemento. Imparare a rifletterci su quotidianamente. Non solo quando ci sentiamo “costretti”.

Imparare dal fallimento. Crescere grazie ad esso. Grazie a Lui. Con Lui. E fare anche un po’ come Bartimeo come ci ha raccontato Enrico : balzare in piedi, gettare il mantello e andare e seguirLo. (Af)fidarsi ciecamente.
La settimana comunitaria è qualcosa che ti entra nelle vene e fa ricircolare il tuo sangue: lo pulisce, gli da ossigeno. Quello che ti mancava. È un modo di vivere. Un’impresa collettiva, un atteggiamento, che cerca di sostituire ad ogni punto esclamativo un punto interrogativo. È crescere. È pensare. Pensare con lode..

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Giovani

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