In italiano, per arrivare a tutti

A 50 anni dalla prima Messa in italiano presieduta da Paolo VI nella parrocchia romana di Ognissanti, papa Francesco è tornato nella stessa chiesa per celebrare l'anniversario. Dopo mezzo secolo dalla Riforma liturgica un bilancio del gesuita padre Eugenio Costa, tra i più autorevoli liturgisti italiani, collaboratore dell'Ufficio liturgico nazionale, autore del testo dell'inno per la beatificazione di papa Montini                                                                                                

In italiano, per arrivare a tutti

Non siamo in molti a ricordare direttamente quella domenica del 7 marzo di 50 anni fa, quando papa Paolo VI, in una parrocchia di Roma, celebrava per la prima volta la Messa in italiano, dando così il via a tutta una nuova fase della storia della Chiesa. Se talvolta gli anniversari possono essere sterili, questo è invece un momento da vivere con totale consapevolezza, con uno sguardo ampio, e attento a tutti gli elementi di questo evento iniziale e del suo svilupparsi nello scorrere degli ultimi cinque decenni.

Fra le parole di Paolo VI durante quella celebrazione spicca l’espressione: «… in omaggio a questa maggiore universalità, per arrivare a tutti». Lucidamente, il Papa del Concilio coglieva la posta in gioco: era gran tempo che occorreva offrire, veramente e ovunque, a tutti i presenti all’Eucaristia la possibilità concreta di prendervi parte «in modo consapevole, attivo e fruttuoso», invece di perpetuare indefinitamente una situazione di distacco, divenuta del tutto insostenibile.

Per le odierne generazioni più giovani non è facile sentire in profondità il salto epocale avvenuto allora: non hanno avuto l’esperienza vissuta, prolungata e senza alternative, di una liturgia (Messa, altri sacramenti e celebrazioni) che si ostinava a mantenere un muro tra clero e fedeli, muro invalicabile e intangibile. Non è il caso di abbondare ora nell’aneddotica, un po’ seria e un po’ giocosa, sui modi pratici in cui il «buon popolo» si dava d’attorno per impegnarsi in qualche forma di preghiera durante il rito, celebrato all’altare in una lingua ignota. La decisione sul cambio della lingua era maturata nel Concilio stesso, ma aveva le sue salde radici sia nell’esperienza pastorale di chiese e parrocchie del mondo cattolico, sia negli studi liturgici, che coprivano ormai decenni di ricerche storiche e teologiche. Il 7 marzo è una data che ha segnato l’intero rito latino, romano e ambrosiano, e questo in tutti paesi di antica cristianità, come pure in quelli dove sono presenti le giovani chiese.

Oggi siamo chiamati, 50 anni più tardi, ponendoci a un’utile distanza, a rileggere questa prima tappa di una riforma liturgica che, nel suo insieme, è un episodio unico, per la sua ampiezza e il suo impatto. Va anzitutto ribadito che si è trattato di un’autentica riforma, al di là di ogni gioco di parole tendente ad ammorbidirla o a relativizzarla. Non si riforma se non qualche cosa che ha bisogno di essere riformato: dietro questa ovvietà si nasconde un preciso e perentorio giudizio sullo stato della liturgia fino al Concilio e post-Concilio. E non si può ragionevolmente sostenere che la liturgia, così riformata, equivalga a quella precedente, che appunto necessitava di un importante intervento. Nessuno, tuttavia, che abbia un minimo di conoscenza storica può neppure lontanamente ipotizzare che il corpo, venerando ma vitale e inaggirabile, del culto cristiano, nella sua sostanza e nelle sue articolazioni, sia stato messo da parte e si sia costruito sul nulla. Queste insinuazioni non fanno onore a chi le esterna.

E neppure ha senso gridare oggi «al lupo!», brandendo lo slogan «riforma della riforma!»: sono mezzucci. Papa Francesco, celebrando proprio il sabato 7 marzo scorso la Messa nella parrocchia romana di Ognissanti, ha affermato: «Non si può andare indietro… chi va indietro, sbaglia».

Ora, chi vorrebbe che si tornasse indietro, dovrebbe chiedersi, in coscienza, che cosa domanda alla liturgia della Chiesa, di che cosa va in cerca? Una delle risposte più note è «vado in cerca del mistero». Domanda: quale mistero? Il credente dove saper dire «no» a un senso pagano del mistero, come qualcosa di enigmatico, di oscuro, fascinoso e indistinto, connotato da ambienti ombrosi, da parole poco comprensibili, da suoni improbabili e da profusione di incensi…

Il senso cristiano del mistero è l’incontro, nella fede, con il dono del Padre, che è Gesù Cristo, compendio di tutti i misteri della fede, nella sua incarnazione, nella sua piena condivisione dell’umano, nella sua fedeltà alla missione ricevuta, nel suo amore verso tutti, nella sua passione, morte e risurrezione: vero uomo e vero Dio. La liturgia non ha altri parametri che la orientino a individuare l’autentico sacro cristiano, e deve sempre vegliare a non ricadere nel sacro pagano.

La riforma liturgica ha cercato di impostare ogni celebrazione su criteri di semplicità, essenzialità, evidenza dei suoi tratti principali e accoglienza delle culture in cui vivono i partecipanti. L’operazione così compiuta, molto complessa ed esigente, non è che un capitolo della movimentata storia culturale del popolo cristiano, in tutti i continenti, e nello stesso tempo è un passo avanti nella comprensione dei valori fondamentali della relazione fra i credenti, figli di una Chiesa bimillenaria, e il loro Signore, Gesù Cristo.

È anche l’inizio di un’immersione più coraggiosa nelle complessità del pensare, sentire, comunicare umano, fortemente segnato dall’elaborazione vissuta in ogni singola cultura. La lingua utilizzata diventa così l’inevitabile luogo emblematico e sommamente significativo di un celebrare odierno, responsabile e avvincente.

Le lingue oggi in uso nel rito latino sono centinaia, come può testimoniare la Congregazione vaticana per il Culto. Non è esagerato affermare che il lavoro di traduzione dei testi biblici e delle preghiere, realizzato in questi decenni, sia stato semplicemente monumentale, in quantità e in qualità. I due pilastri di ogni celebrazione, l’ascolto della Sacra Scrittura e il rito sacramentale, riportati a chiarezza appunto dalla riforma, fanno tutt’uno con una lingua che deve essere comunicativa, media e non accademica, bella e non sciatta, accogliente e non scostante.

Due osservazioni: anzitutto, il cambio della lingua e la riforma del rito non sono una garanzia automatica di buona e fruttuosa celebrazione. L’azione liturgica investe, e richiede in modo pressante, la convergenza interiore di tutta la persona e di tutta l’assemblea radunata. Ha bisogno di esser irrorata dalla linfa di una vita spirituale e di una pratica cristiana, di cui solo Dio è giudice ma che vanno alimentate e sostenute da una pastorale costante, convinta e responsabile. Celebrare «in spirito e verità» è un fatto nuovo ogni volta, ma le forme concrete del rito creano la situazione vitale in cui potersi muovere con frutto evangelico. La collaborazione di tutti e l’offerta sensata di tutte le arti umane (parola, canto, musica, gesto, movimento, danza, arredo, pittura, scultura, architettura …) sono una chiamata e uno stimolo permanenti.

Infine, non sarebbe onesto nascondersi che l’attuazione piena della riforma liturgica, la quale è nello stesso tempo un progetto e un compito da attuare, sia ancora in cammino. Cinquant’anni non sono molti, e anche in seguito vi sarà sempre da ripensare e ricominciare, una generazione dopo l’altra. Errori e storture, presunzioni, chiusure, velleità e fughe in avanti sono purtroppo sempre in agguato, e hanno già fatto i loro disastri. La riforma della liturgia chiede a gran voce la riforma delle menti e dei cuori. 

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