Il sorriso di Dio in aiuto a chi soffre

I luoghi dell'anima - Il monastero delle Suore passioniste, un "confessionale" per chi si sente inaridito dalla mancanza di gesti d'amore

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Il sorriso di Dio in aiuto a chi soffre

«Chiamano, nel cuore della notte, e noi rispondiamo». Ovada, il monastero delle suore passioniste è uno dei ‘confessionali’ dell’Italia insonne, malata, assetata. «Molti hanno perso la fede, altri l’hanno disseminata tra le durezze della vita, piangono al telefono e sognano una parola, un gesto, un cenno». Strada delle Campanelle 11. Gli squilli si riverberano tra colline povere nelle quali, qua e là, emergono le vigne del bianco Gavi, ma più sovente incrociano vecchie cascine abbandonate, mescolate con modernissimi centri di logistica e le fabbriche del cioccolato e dei biscotti. «Cercano il silenzio e qui lo trovano». Suor Enrica, con le sorelle, dodici in tutto, dieci indonesiane e due italiane, età media quarant’anni, con l’autenticità di una bambina racconta la vita del convento nel quale san Paolo Della Croce, il fondatore, più volte è tornato.

È abbarbicato, quasi aggrappato, ad una strada che dalla città sale verso il saliscendi sconfinato, ricco solo di curve e di casupole vecchie. Ebbene, il ‘seme di Dio’ germoglia e dà frutti qui, dove nessuno mai avrebbe immaginato. «No, non siamo inutili, mai pensato. Vede, la preghiera va direttamente al cuore del Signore e poi scende, moltiplicando attenzioni e grazie, su ognuno di noi». Dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Lombardia e dal Veneto, gli squilli, nella notte, portano i sospiri dell’uomo, della crisi, della sete di Assoluto. Chi l’avrebbe mai detto. Tutt’intorno c’è terra povera, attorno ad una chiesa, costruita, tanto tempo fa, dai frati francescani, ora dai seguaci di quel missionario poliedrico e profondo che l’ha voluto, così, sulla strada: una fontana di grazia.

Qui le luci, tre volte la settimana, si accendono alle due, nelle notti tra il sabato e la domenica, tra il martedì e il giovedì, tra il giovedì e il venerdì. Si accendono e, al rumore leggero della tonache delle monache che si trovano nel coro della chiesa, si sentono i canti e le invocazioni delle letture della Bibbia. Fino alle tre: un’ora in preghiera, sole, davanti a Dio. Poi si torna a riposare con una cresciuta sapienza del cuore. Fuori le montagne giacciono nell’oscurità dei colli che dal passo del Turchino vanno verso il mare. Siamo a quaranta chilometri da Genova; l’autostrada è a poche centinaia di metri; i Tir disegnano sull’asfalto le geometrie della globalizzazione.

Alle 5,45, pochi istanti prima che la luce flebile dei raggi di sole illumini questo lembo di terra nel quale il mondo contadino di ieri si mescola con le sorprese dell’oggi, la sveglia. Alle 6,15 le melodie delle Lodi. È un momento semplice, quasi scarno, perso nell’universo. Sembra d’essere nella pace assoluta del sentiero che, dal monastero di San Giorgio, vicino Gerusalemme, cala verso Gerico, tra pietre e sterpaglia. L’alba è un crescendo di voci a Dio che sale dalla fragilità di una società che si risveglia. «Quante sofferenze, quanto dolore, quanta ansia. È tutto ciò che, con le ore, è arrivato nelle celle del monastero, dalle celle del telefono. Tutto poniamo nelle mani di Dio. La notte è il tempo in cui si incontrano le anime più desolate, sconsolate, appese alla vita con un filo sottile: famiglie rovinate dall’odio, devastate dalle malattie e dalle disgrazie, inaridite dalla mancanza di gesti d’amore, dal lavoro che non c’è, dall’attesa e dalle attese di una felicità che non arriva». Chiamano soprattutto persone, uomini e donne, che hanno gettato alle ortiche i loro Credo per affidarsi a sètte, anche a gruppi satanici o esoterici e si sono poi trovati imprigionati tra regole assurde immerse nel nulla».

Questo è un monastero che ha vissuto, in buona parte, la crisi della comunità cristiana. Si era quasi svuotato fino a quando, quindici anni fa, da Vignanello sono giunte le monache che l’animano oggi. «Aiutiamo con gioia, pace serenità», confidano, mentre camminano nel chiostro tutto bianco di calce, che custodisce piante, fiori, siepi nella sobrietà del dono. Una chiesa, un monastero, il mondo: è la prova della vera grandezza della comunità dei credenti. Sì, mentre le auto scendono dalle colline per andare al lavoro o sfrecciano verso il mare, in uno degli angoli più nascosti di una terra avara, un gruppo di donne sta in ginocchio, davanti al Santissimo. Certo è difficile coniugare insieme la semplicità e la trasparenza del messaggio che sale al cielo, oltre le grate, a fianco dell’altare, con le meschinità che, a volte, si colgono, nel cammino di chi crede, con le storie, non sempre esemplari portate dalla cronaca, con le resistenze, non sempre disinteressate, alle riforme di papa Francesco. Non è facile, ma è possibile.

È il miracolo della fede che abbatte le montagne. «Siamo separate, ma nel mondo, immerse nella vita», ripete suor Enrica, mentre con una consorella ci porta nella stanzetta nella quale vengono confezionate le ostie per l’Eucarestia, «Dio è presente qui come dovunque, noi non siamo che le sue mani, i suoi occhi, le sue parole». È bello pensare il convento delle passioniste come un ponte nella notte per chi non ha nessuno che l’ascolta e sfoglia l’elenco del telefono per poi parlare con gli ‘eremi’ di Ovada, Roma, Genova, Quarto, Castiglion Tinella, dove altre trenta suore stanno in ascolto delle ombre del mondo, dei ‘non detti’, dei troppi ‘sottintesi’ che alimentano le divisioni: nelle case, nelle famiglie, nella città e nei paesi. «La nostra risposta è, prima di tutto, la preghiera». La potenza della preghiera: di giorno e di notte, con una taratura ancora più forte il venerdì, nella via Crucis.

È bello pensare il convento delle passioniste, così appartato che non può non ricordare il gesto che Gesù faceva ogni volta che voleva star solo con se stesso, a pregare, è bello pensarlo come un ponte verso le missioni sperdute nelle periferie del mondo. «Non abbiamo altro che il nostro Rosario e i salmi al Signore. Li offriamo per accompagnare in Africa la ricerca del cibo, gli aiuti agli ammalati, le traversate degli immigrati sui barconi, la nascita di mense per i più poveri in India, l’apertura di case d’accoglienza in Asia». Marta e Maria, gesti diversi, gesti uguali, forti. Ma qui, come altrove, è pieno di capannoni chiusi, abbandonati, con le scritte «affittasi», «vendesi», con le ortiche che hanno affogato e spesso spento le speranze di molti. Ed è veramente difficile accettarlo.

«Rispondiamo con la preghiera, l’unica nostra forza, la nostra ricchezza nella assoluta povertà di vita. E se bussano alla porta condividiamo con chi non ha il poco che abbiamo, il pane, la minestra, la verdura». Fuori, già sul sagrato, un silenzio profondo, che ravviva, che dà vita. È vero, all’ingresso, sbarrato, c’è una ruota come ‘segno’ della clausura, nel parlatorio la grata ed un’altra ruota per passarsi le cose. Clausura stretta, ma il sorriso così vero che traspare dai volti delle monache dice tutto, tutto davvero. È il sorriso di Dio.

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