Il martirio dei gesuiti non va dimenticato

Il 25° anniversario (16 novembre 1989-16 novembre-2014), il ricordo in Salvador della strage dei 6 gesuiti Università cattolica Centro-america 

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Il martirio dei gesuiti non va dimenticato

«Da diversi giorni il mondo segue con profonda apprensio­ne i tragici avvenimenti che stanno sconvolgendo il Paese centroamericano di El Salva­dor, con centinaia di morti. Sei padri della Compa­gnia di Gesù sono stati barba­ramente assassinati nella loro residenza universitaria. La lotta fratricida prosegue con spietata violen­za e il numero delle vittime cre­sce ogni giorno».

Venticinque anni fa, domenica 19 novembre 1989 all’Angelus, Giovanni Paolo II piange «il bagno di sangue e la guerra civile. Non è possibile rimanere insensibili di fronte a tanto ingiustificato spargimento di sangue, al sacrificio di tante persone, al dolore delle loro famiglie e alla sofferenza di un popolo affranto e indifeso». Quattro giorni prima il 16 novembre 1989, in piena guerra civile - che è durata 12 anni, dal 1980 al 1992 - i soldati del battaglione anti-guerriglia «Atlacatl», addestrato dalla Cia negli Stati Uniti del guerrafondaio Ronald Reagan – che vedeva comunisti dappertutto – fanno irruzione nell’Università cattolica americana (Uca) e compiono una strage uccidendo: il sociologo Segundo Montes, superiore della comunità; il rettore dell’Uca, lo spagnolo Ignacio EI­lacuria, al quale si rivolgevano abitualmente i giornalisti stranieri; lo psicologo Ignacio Martín Baró, vicediret­tore; Joaquin Lopez direttore di «Fe e alegria», scuola di formazione sociale per i po­veri; i professori di teologia Juan Ramón Moreno, Armando López, il salvadoregno Joaquín López y López; la cuoca Elba Julia Ramos e la figlia 16enne Celina MaricethRamos.

Sono anni turbolenti nel Paese centroamericano affacciato sul Pacifico. Al democristiano José Napoleon Duarte, al potere dal 12 dicembre 1980, risponde l’opposizione riunita nel «Fronte democratico rivoluzionario Farabundo Martí per la liberazione nazionale». Nove anni prima, il 24 marzo 1980, gli «squadroni della morte» avevano abbattuto l’arcivescovo di San Salvador mons. Oscar Arnulfo Romero mentre diceva Messa nella cappella dell’ospedale «Divina Provvidenza». Il mandante degli «squadroni della morte» era il maggiore Roberto d’Abuisson. In poco tempo nella guerra tra esercito regolare e «Farabundo Martì» si contano mille morti e migliaia di feriti.

Papa Wojtyla invia un telegramma: «Profondamente costernato dalla triste notizia del barbaro assas­sinio dei sei padri e dei membri dei personale, desidero manifestare il mio vivo dolore per questo atto di esecrabile violenza insieme alle mie preghiere per l'eterno riposo degli uccisi, Nell'esprimere ancora una volta la mia energica riprovazione per le azioni contro la vita delle persone, rinnovo il mio urgente appello alla responsabilità e alla concordia, mentre faccio voti perché il sacrificio dei religiosi assassinati induca tutti a respingere le violenze e a rispettare la vita dei fratelli, per conseguire frutti di pace e di riconciliazione in questo Paese sofferente». Ilpreposito generale della Compagnia, padre Hans Peter Kol­venbach, parla di «orrendo delitto».

Il salvadoregne padre David Leoez e il nicaraguense padre Adan Cuadra – exallievi dei religiosi assassinati – accusano esplicitamente gli «squadroni della morte». L’arcivescovo di San Salvador mons. Arturo Rive­ra y Damas, succeduto a Romero, dichiara: «Gli assassini dei Gesuiti sono gli stessi che ammazzarono mons. Romero».

Particolare orrore suscita l'assassinio della cuoca e di sua figlia, «testimoni scomodi». Per l’eccidio un colonnello, due tenenti, un sottotenente e cinque soldati sono processati nel 1991: sette sono assolti; il colonnello Guillermo Benavides e il tenente Yusshy Mendoza sono condannati a 30 anni di carcere, ma appena due anni dopo beneficiano dell’amnistia del 1993 poche ore prima della pubblicazione di un rapporto della «Commissione della verità» dell’Onu che incolpa i vertici militari. La vicenda è riaperta nel 2009 in Spagna sulla base di una denuncia dell’«Asociación iberica pro derechos humanos» e dello statunitense «Center for Justice &Accountability». Il quotidiano salvadoregno «Il Faro» pubblica un documento, parte di un ampio rapporto archiviato dal «Centro de Justicia y Responsabilidad» intitolato «El coronel Montano y la orden de matar» che ricostruisce le due giornate cruciali. Dopo una prima riunione dei veritici militari «il colonnello Ponce chiamò il colonnello Guillermo Alfredo Benavides e, davanti ad altri quattro ufficiali, gli ordinò di eliminare padre Ellacuría senza lasciare testimoni». Secondo le confessioni dei soldati accusati degli omicidi, il colonnello Benavides esce dalla riunione dello Stato Maggiore e informa gli ufficiali del Collegio Militare che ha ricevuto l’ordine: «Lui [Ellacuría] deve essere eliminato e non voglio testimoni».

L’eccidio dura circa un’ora, secondo il rapporto: «Padre Martín-Baró ha aperto la porta della residenza lasciando che i soldati entrassero. Dopo aver ordinato ai sacerdoti di mettersi faccia a terra sui gradini del giardino, due soldati hanno sparato uno alla volta. A pochi metri di distanza un altro soldato ha ucciso la cuoca ElbaRamos, che abbracciava sua figlia Celina. Il tenente José Ricardo Espinoza Guerra, l’unico soldato che si era coperto il volto con tinta mimetica, ha confessato di aver lasciato l’Università in lacrime: padre Segundo Montes, che giaceva morto a terra, era stato suo rettore quando lui era studente. Un altro degli autori materiali ha ricordato che [i gesuiti] non sembravano pericolosi giacché erano “abbastanza vecchi, senza armi e in pigiama”. Ma disse che il suo colonnello gli aveva detto che i sacerdoti erano “delinquenti terroristi” e che erano “il  loro cervello quello che contava”». I militari pensano di aver decapitato le «teste pensanti del movimento insurrezionale». I corpi sono ritrovati con un colpo alla testa e con il volto deturpato dagli spari a bruciapelo. Uno aveva supplicato di non ucciderlo. Gli assassini discutono per far ricadere la colpa sul «Fronte  Farabundo Martí».

Oggi i nomi dei martiri gesuiti sono scolpiti nel campus, nel punto dove vennero assassinati: chi in giardino, chi trascinato fuori dalla stanza, chi come le due donne eliminate perché non restassero testimoni. E i resti riposano nella Cattedrale di San Salvador, come il corpo di mons. Romero. I n un parco su un muro di 85 metri sono incisi i nomi delle 25 mila vittime della guerra civile salvadoregna.  

La storia degli ultimi decen­ni vede, nelle file dei testimoni della fede, alcune luminose figure di pastori: il cardinale messicano Juan Jesús Posadas Ocampo,assassinato dai «narcos»;  i vescovi Oscar Arnulfo Romero di El Salvador, Juan Gerardi Conedera del Guatemala, Jairo Jaramillo Monsalve e Isaías Cancino Duartedella Colombia; le suore france­si Alice Doumon e Léonie Duquet, rapite dai militari in Argentina e gettate in mare da un aereo e morte nell’impatto con l'acqua.

Le dittature militari e i governi op­pressivi, con il sostegno degli Stati Uniti, hanno insanguinato l’America Latina per decenni: Argentina (1966-1983), Brasile (1964-1985), Cile (1973-1990), Ecuador (1972-1976), Paraguay (1954-1989), Perù (1968-1980), Uruguay (1973-1985), Venezuela (1948-1958). Bolivia, Colombia, ElSalvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Panama sono stati dilaniati da guerre civili. Ovunque c’è stato un martirio di popolo.  

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