Firenze 2015, testimoni come segno della presenza di Cristo

Tre storie di uomini e donne che sono uno spaccato realistico del popolo di Dio e hanno commosso l'assemblea del Duomo nell'incontro con Francesco

Parole chiave: Firenze (23), convegno (43), italia (221), testimoni (5), papa (648)
Firenze 2015, testimoni come segno della presenza di Cristo

Che lo stile della Chiesa italiana negli «stati generali» di Firenze sia sostanzialmente cambiato lo si è capito subito. Il programma prevedeva la presentazione dei lavori del V convegno della Chiesa italiana. A Roma nel 1976 Paolo VI non era presente; a Loreto nel 1985 e a Palermo 1995 con Giovanni Paolo II e poi a Verona nel 2006 con Benedetto XVI c’erano state ampie e dettagliate presentazioni dei lavori già svolti; a Firenze invece una presentazione molto scarna del convegno da parte del presidente della Cei cardinale Angelo Bagnasco. E poi tre testimonianze straordinarie nella loro umanità dolente: una ragazza non battezzata da piccola, due divorziati risposati, un ex immigrato albanese ed ex«barbone» divenuto prete fiorentino.                                       

 Tre testimonianze che sono uno spaccato realistico del popolo di Dio nel secondo decennio del XXI secolo, che sono l’immagine di un’umanità ferita e dolente che, se aiutata, sa risollevarsi.                                                                                                    

Pierluigi e Gabriella Proietti arrivano dal Centro di formazione e pastorale familiare Betania di Roma. «Ci siamo conosciuti nel 1992, subito dopo il crollo definitivo dei precedenti rispettivi matrimoni durati circa 10 anni. Io - racconta Pierluigi - ho un figlio 33enne nato dal primo matrimonio, che ora è sposato e ha due bambine; mentre Gabriella ha una figlia 34enne». Due matrimoni nati e vissuti senza consapevolezza del Sacramento, senza maturità e domande di senso. Matrimoni finiti, vivendone la crisi in solitudine e senza sostegni. «Dopo il terremoto della separazione, eravamo entrambi alla ricerca di un orientamento e di un fondamento di senso per la nostra vita e di modi per alleviare le sofferenze dei nostri figli». La moglie Gabriella racconta che «una coppia di sposi si è fatta vicina, ha versato sulle nostre ferite il balsamo dell’accoglienza e poi ci ha “consegnato” alla Chiesa, la locanda dell’umanità ferita, perché ci curasse».                                                                                               

In questo sofferto periodo - precisa il marito - «ci siamo incontrati. Entrambi abbiamo deciso di fidarci di una Chiesa che, come madre sapiente, dopo averci accolto e consolato, ci ha istruito sul da farsi, fino ad accompagnarci nel vagliare l’eventuale nullità dei nostri precedenti matrimoni». Spiega la signora: «Le cause di nullità, vissute con l’obiettivo di conoscere quale fosse la volontà di Dio per noi, sono state una dolorosa opportunità per rivisitare le motivazioni che ci avevano spinto a contrarre i nostri precedenti legami matrimoniali. Dopo otto anni, entrambe le “difficili” cause di nullità si sono concluse con una sentenza affermativa». Poi nel 2000, «quando i figli erano ormai maggiorenni, ci siamo sposati con matrimonio concordatario: il nostro è stato però un ricominciare da quattro e non da due». I due sposi sono l’immagine di come la Chiesa vuole essere dopo il Sinodo dei vescovi sulla famiglia di ottobre.                                                                              

Francesca Masserelli abita in un piccolo paese delle Valli di Lanzo in provincia di Torino. «I miei genitori non mi fecero battezzare per lasiare a me la scelta. Il mio percorso di catecumenato è iniziato tre anni fa. La decisione di diventare cristiana cattolica è maturata nel tempo ed è stata il compimento di un lungo percorso. Fin da piccola ho sempre desiderato incontrare Gesù anche se i miei genitori presero la decisione di non battezzarmi».                                                                                                

Dal racconto di Francesca si capisce che è stata accolta e aiutata da una fiorente comunità del Movimento dei Focolari. Ringrazia «la mia famiglia per avermi aiutato a essere la persona che sono oggi, e Gesù che non mi ha mai lasciato sola anche nei momenti più bui e profondi». In questo ultimo anno – ricorda - «ho dovuto affrontare diverse difficoltà: dapprima con la malattia di mio papà ci siamo sentiti tutti malati e infine con la sua morte è come se fossimo morti tutti». 

Aggiunge: «Sono fortunata di aver ricevuto i sacramenti, insieme alla mia bambina, nella Pasqua del 2015 perché è stato per noi come rinascere “a nuova vita”, diventare cristiani è una gioia, ma anche un impegno che comporta fatica, un cammino continuo che non ha fine e troverà pace solamente il giorno in cui potremo vedere il volto di Gesù».                                                                        

 Infine prende la parola Bledar Xhuli - poco dopo nel suo discorso il Papa lo definirà «il giovanissimo sacerdote accolto da ragazzo da un sacerdote». Nato in Albania da una famiglia atea, «dopo il crollo della dittatura i miei genitori, che lavoravano per lo Stato, hanno perso il lavoro, non c’era prospettiva per il futuro».

Nel 1993, a 16 anni, «ho  deciso di partire per lavorare in Italia, per realizzare un sogno e poi tornare in Albania: con un passaporto falso attraversai l’Adriatico su una nave pensando di trovare facilmente un lavoro e una casa, ma presto scoprii che così non era». Faceva parte di quelle migliaia e migliaia di albanesi che, caduto il truce della dittatura comunista di Enver Hoxha. Il fatto di essere clandestino e minorenne «non migliorava la situazione».

Girando per varie città d’Italia «dormivo all’aperto nelle stazioni ferroviarie». Poi «mi fermai a Firenze dove un compaesano mi disse che c’era la possibilità di mangiare e dormire gratis: infatti dormivamo sotto un ponte lungo il Mugnone e mangiavamo alla mensa della Caritas, giravo tutto il giorno per cercare lavoro, ma senza documenti era impossibile, suonavo nelle chiese per chiedere l’elemosina e un aiuto». La notte spesso «non riuscivo a dormire per il freddo e l’umido, ma anche perché mi trovavo in una situazione peggiore di prima: e non potevo tornare indietro a causa dei tanti soldi presi in prestito per l’attraversata». Di nascosto dagli altri, «la notte piangevo e gridavo la mia disperazione. Dio ascoltò la voce di un disperato».                                                                                          

Il 2 dicembre 1993 bussa alla chiesa di san Gervasio, non per chiedere l’elemosina, ma per ritirare una lettera. Il prete, don Giancarlo Setti «cominciò a chiedermi chi fossi e cosa facevo, mi fece entrare e abitare nella sua casa, come un figlio non per un giorno o un mese, ma per quasi dieci anni fino al 2002 anno in cui morì, in seguito a una grave malattia». Una generosità e accoglienza che «mi hanno sconvolto e mi fece capire una grande verità: ero clandestino, non ero un delinquente». È stato il «primo incontro con Cristo sebbene non ne fossi consapevole».  La notte della Pasqua del 1994 «ricevetti il Battesimo, la Cresima e la Comunione secondo il rito degli adulti». Quindi «sono entrato nel Seminario diocesano, dove ho vissuto sette anni di formazione» ed stato ordinato sacerdote e ora è parroco.                                               

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