Maternità, famiglia e amore

La riflessione di un docente di psicologia all'Università Cattolica di Milano

Parole chiave: maternità (2), famiglia (86), gender (7)
Maternità, famiglia e amore

“Finalmente uno spazio per la riflessione”. È uno dei commenti più frequenti, dopo la pubblicazione di un mio contributo sul posto di Maria nella maschilità del Figlio (La lezione materna. Osservatore Romano, 25 febbraio 2016). "Non avevo mai pensato a Maria come provocatrice - scrive una psicologa - e oggi qualcuno vorrebbe dirci che Maria nel miracolo di Cana non avrebbe dovuto provocare, perché in questo modo ha influenzato la divinità del figlio, ma allora avremmo avuto tanta buona acqua e niente vino".

Molte banalità sguaiate sul tema dei diritti civili, dentro e fuori il Senato, nelle ultime settimane hanno lasciato i cittadini sbigottiti. Assuefatti d'informazioni sommarie su un tema - il gender - di per sé poco adatto a semplificazioni; demoralizzati da un lessico quotidiano da provincia profonda. Ai più è parso d'assistere a grottesche discussioni sulle vite di uomini, donne, bambini - "dobbiamo averli”, “possiamo averli” - avvelenate d’invidia, quel vizio che "non desidera avere ciò che l’altro possiede; piuttosto, desidera radicalmente che l’altro non disponga di ciò che io non possiedo oppure ho perduto. Decisamente distruttiva, l’invidia è pronta a ogni violenza, purché l’altro non possa godere di qualcosa di cui io non godo" (Viganó D. E., Il brusio del pettegolo. Forme del discredito nella società e nella Chiesa. Bologna, Edizioni Dehoniane, 2016).

Il diffuso imbarazzo nel Paese indica, forse, che i cittadini apprezzerebbero alcune merci molto rare di questi tempi: prudenza, tenerezza, rispetto. Se ne avverte una profonda, silenziosa nostalgia. Ritengo, senza alcuna pretesa esegetica, che il Vangelo possa avere qualcosa da dire in proposito. Su L’Osservatore ho parlato di "Lezione materna", mostrando come già alle nozze di Cana, nel primo segno pubblico di Gesù, si trovano molte risposte ai quesiti del bel canto liturgico: "Io vorrei tanto sapere se tu gli hai spiegato che cosa sarebbe successo di Lui" (P. Sequeri, Madre io vorrei). Ebbene, nel quarto vangelo la madre provoca il figlio ad accorgersi del bisogno: lo fa in un giorno in particolare, a quel pranzo di nozze, di fronte al dato semplice che per fare festa ci occorre anche del buon vino.

Torniamo a noi e alla gente di oggi, disorientata. Mi viene in mente una folla evangelica non diversa, assetata e affamata di risposte e di cure, stanca (Mt 14, 13-24). Mi chiedo quale sguardo e quale metodo abbia utilizzato Gesù. Sullo sguardo, l'Evangelista non lascia dubbi: il Cristo vedendo ha compassione. Rintracciare il metodo è più complesso, ma non impossibile. Per rispondere ai discepoli, che sollecitano a mandare a casa le persone che da troppo lo seguono, il Maestro inizia facendo fa proprie le parole di Gedeone, che a quelli di Succot disse: "Date focacce di pane alla gente che mi segue, perché è stanca e io sto inseguendo Zebach e Zalmunna, re di Madian" (Giudici 8, 5). Gesù ripete la frase di uno degli uomini che nel Primo Testamento dimostra più profonda fedeltà al Dio di Israele. Una fedeltà che giustificava ampiamente il delegare ad altri di placare la fame della gente, riservando per sé il compito più pericoloso e importante: portare a termine la battaglia. Ho parlato di "lezione materna", intendendo la lezione appresa da un Figlio (maschio), così ben educato da riuscire a vivere una "sensibilità materna" senza venir meno alla sua mascolinità: quel “dare-dandosi”,  tipico del genio femminile. E’ l'accorgersi di che cosa manca: una profonda sapienza e quasi una predisposizione naturale a leggere i bisogni dell'altro - ad esempio, la fame – sapendo approfittare della soddisfazione del bisogno concreto per dare un significato ulteriore, per nutrire il legame. Anche nel brano dei pani e dei pesci, poi, come tante altre volte nei Vangeli, è stato perso qualcosa e qualcuno - manca vino, si è smarrita una pecora, non si trova una moneta, è disperso un figliolo - eppure dal vuoto, dall'incapacità, dall'inadeguatezza e in questo caso dall'impossibilità reale a far fronte alla situazione - "erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini" - Gesù ricrea le condizioni per superare sia la mancanza fisica sia quella di senso. Mette in campo il “super-dono”, la ricetta alternativa per saziare chi ha fame e sete: non correre avanti, non dimenticare chi è stanco e affaticato, non delegare ad altri di occuparsi di chi resta indietro. Soffermarsi. Stare insieme. Ritrovarsi. Per moltiplicare l'umanità dei piccoli gesti, perché da essi - ecco il miracolo - nascano grandi gesta, degne di un libro di storia all'incontrario: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,52).

La buona battaglia cristiana proprio non coincide con le definizioni giuridico-economiche della vita delle persone, ma in un investimento su di loro, qualsiasi appaia la situazione di partenza. Meglio: un investimento sulla forza dei loro legami. Agli orecchi degli Italiani, ancora una volta, nei giorni scorsi, è arrivato soprattutto il rombare di posizioni ideologiche, quasi mai validi suggerimenti per fare manutenzione del capitale sociale - istruzione, cura, famiglia, amicizia e volontariato - che rapidamente si erode, in una crisi della generazione adulta che è di senso, ancor prima che economico-finanziaria.

Rientrando dal Messico, intervistato durante il volo, Francesco a braccio ha risposto ad una domanda: "Il Papa è un uomo, e ha bisogno anche del pensiero delle donne. Anche il Papa ha un cuore che può avere un'amicizia santa e sana con una donna". Dunque, tra i muri che a suo giudizio un cristiano non può costruire, vanno annoverati anche gli "steccati, le chiusure mentali". Ebbene, sto analizzando in questi giorni i risultati di una tesi di ricerca, condotta da una laureanda dell'Università Cattolica, su "Suicidio e crisi economica: il valore preventivo di ruoli e legami". Tra i molti dati raccolti, attraverso decine di interviste a persone rimaste senza occupazione negli ultimi anni, quello meno facile da prevedere è che i livelli di maggior sofferenza riguardano non semplicemente le figure maschili, specie quelle con elevata scolarizzazione, ma tra queste soprattutto coloro che hanno una rappresentazione più tradizionalista del rapporto uomo-donna. Seppure tutti riconoscano il sostegno ricevuto da mogli e figli, alcuni pensano in maggior misura a togliersi la vita perché ritengono che non si possa in alcun modo essere uomini validi se non si è più maschi produttori di reddito. Disposti a tutto, pur di non sentirsi inutili, come quel padre di famiglia, compulsivamente impegnato a ridipingere casa, più e più volte, senza effettiva necessità, pur di dare un po' tregua al senso interno di vuoto.

Così, mentre i mass-media amplificano le prese di posizione di chiunque a parole si accrediti come salvatore di legami e di affetti, la folla ha fame di appartenenze e relazioni più vere, in cui "l'Io dell'uomo moderno trovi sostegno per non ripiegarsi narcisisticamente su se stesso e di diventare orfano dell’altro" (Molinari E. e Cavaleri P. Il dono nel tempo della crisi. Milano, Raffaello Cortina, 2015). La lezione materna appresa da Gesù ha permesso a lui di non diventare un "superbo chiuso nei pensieri del suo cuore" (cf. Lc 1,51) e a noi domanda come dare davvero soccorso alla fame di significati e di cura, propria del nostro tempo.

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