Noi monaci dietro le sbarre

In occasione dell'Anno Santo della Misericordia, l'Arcivescovo Nosiglia ha potenziato la cappellania del penitenziario torinese con la fraternità dei monaci apostolici diocesani a servizio della pastorale carceraria  

Noi monaci dietro le sbarre

Uno dei frutti tangibili del Giubileo della misericordia nella nostra diocesi è il potenziamento della cappellania nel penitenziario «Lorusso e Cutugno», l’ex carcere delle Vallette, in cui sono reclusi oltre 1300 detenuti. Dopo il ritiro per motivi di salute di don Piero Stavarengo, don Alfredo Stucchi, da vent’anni cappellano nella casa circondariale torinese era rimasto l’unico sacerdote di una parrocchia – come lui stesso la definisce – che tra detenuti agenti volontari e personale conta 5 mila anime. Un carico gravoso che don Alfredo, coadiuvato dal diacono Vincenzo Prota, dal settembre scorso condivide con fr. Guido Bolgiani Cambiano, della Fraternità dei monaci apostoli della diocesi di Torino, nominato dall’Arcivescovo secondo cappellano del carcere. Un impegno condiviso  con i confratelli fr. Jean Marcel Tefnin e fr. Silvio Grosso (nella foto da sinistra, fr. Tefnin, fr. Guido Bolgiani, il novizio Marco Laruffa e Fr.Grosso). I tre religiosi proseguono nella pastorale carceraria il servizio che la Fraternità, esperienza di vita religiosa cittadina nata a Torino alla metà degli anni Novanta, offre alle comunità parrocchiali della diocesi. 

L’esperienza dei monaci diocesani e apostolici, che riconoscono come loro superiore il Vescovo e sono dediti in modo prioritario all’apostolato nelle parrocchie, ha radici antichissime, che risalgono ai Padri della Chiesa: una forma di vita monastica «riscoperta» nel Novecento sulla scia del Concilio Vaticano II. Dopo un periodo di servizio presso le parrocchie dell’Annunziata e della Trasfigurazione, la Fraternità monastica fu inviata dall’allora Arcivescovo Poletto nella parrocchia del Sacro Cuore di Maria, nel quartiere San Salvario dove – come nella realtà carceraria torinese - convivono fedi ed etnie diverse. In occasione del giubileo dei carcerati abbiamo chiesto a fr. Guido Bolgiani a nome della Fraternità come con i confratelli sta vivendo questo nuovo impegno pastorale.

Fratel Guido, l'Arcivescovo in occasione del Giubileo della misericordia, oltre ad aprire due porte sante nei penitenziari torinesi (al Ferrante Aporti e all'ex Vallette), ha voluto rinforzare la cappellania del carcere degli adulti nominando lei cappellano e chiedendo alla vostra Fraternità di occuparsi della pastorale carceraria. Per quale motivo avete accettato questo gravoso incarico che è anche simbolico dello stile con cui mons. Nosiglia desidera che la diocesi «senta» il carcere come una sua parte integrante?

In effetti il Vescovo ha chiesto alla nostra Fraternità monastica di assumere in solido il compito pastorale della cappellania. Fin dalla prima volta che ce ne parlò, subito sentimmo una profonda sintonia con esperienze di condivisione della sofferenza, già vissute nella nostra storia di Fraternità. Mi riferisco in particolare alla scelta di impegno privilegiato che da anni viviamo nell’ascolto e nell’accompagnamento di persone malate e loro famigliari, in contesti non esclusivamente parrocchiali.

Credo che la scelta del Vescovo abbia un valore simbolico non solo perché con noi è aumentato il numero di singoli preti presenti nel carcere, ma soprattutto perché ora vi è presente anche una Fraternità, cioè una realtà che, pur con tutti i suoi limiti, può forse meglio manifestare la compassione e la premura di un Dio che è relazione e fraternità e che può far lievitare tali valori in un mondo che ne ha un immenso bisogno.

Come avete deciso di impostare la vostra presenza di Fraternità monastica all'interno del carcere? Quali sono le vostre attenzioni pastorali, cosa significa essere monaci in un carcere?

Premesso che stiamo vivendo una fase di conoscenza della realtà carceraria e dunque ad oggi non ci è ancora possibile dare una vera risposta a questa domanda, mi sento di dire che la nostra prima attenzione pastorale è l’ascolto: ascolto dei detenuti, degli operatori, della direzione, dei volontari. L’ascolto è indispensabile per noi, ma è anche un’offerta di chiarificazione per gli altri, dentro a una realtà che pare assai complessa e a volte aggrovigliata in dinamiche contradditorie.

 É quasi da tre mesi che avete assunto questo nuovo ministero: che realtà umana avete trovato al «Lorusso e Cutugno»? Quali sono i problemi «spirituali» più urgenti delle persone detenute?

Come dicevo, la realtà carceraria è molto complessa e non è fatta solo dai detenuti. Vi è una forte presenza di agenti di polizia penitenziaria di entrambi i sessi (sono all’incirca 600 effettivi destinati alla custodia di circa 1400 detenuti), che svolgono un lavoro decisamente logorante, soprattutto dal punto di vista emotivo e mentale. In buona parte essi vivono lontano dalle famiglie di origine, residenti nel Centro-Sud Italia. Inoltre negli ultimi anni, a causa dei tagli alla spesa pubblica, sono sottoposti a turni di lavoro sempre più stancanti. Vi è poi un piccolo, ma qualificato, drappello di educatori (sono solo 16 quelli assunti dall’Istituto), caricati di gravi responsabilità perché ad essi fanno capo tutti i progetti di rieducazione e reinserimento dei detenuti. E vi è anche una variegata e generosa presenza di volontari, impegnata su fronti diversi e forse bisognosa di un maggiore coordinamento.

Per quanto riguarda i bisogni «spirituali» dei detenuti ci pare che l’aspetto più evidente sia quello relativo alla riconciliazione e al perdono, di se stessi e degli altri. Chi si accosta ai cappellani con richieste di colloquio spirituale è spesso tormentato dall’incapacità di perdonarsi, pur avendo accolto il perdono di Dio. A monte di ciò, poi, nel cuore di molti detenuti emerge un grande bisogno di verità e di autenticità, un bisogno che innesca faticosi cammini personali in cui si alternano sentimenti contrastanti nel segno a volte della resistenza e a volte della resa, a volte della consapevolezza e a volte della negazione, a volte della speranza e a volte della sfiducia.

 Come si declina la vostra missione di portare la speranza in un luogo dove abitano degrado, disperazione, nostalgia per il distacco dagli affetti, la malattia e la solitudine?

In questi primi mesi di servizio abbiamo sperimentato più volte una sensazione di impotenza di fronte a situazioni apparentemente senza via di uscita. È una sensazione che, per quanto dura da accettare, può suggerire un particolare stile di presenza, quello del «servo inutile», cioè di colui che vive il suo servire, anzitutto come una possibilità e un dono gratuito che dà senso alla vita, aldilà dei risultati tangibili che si possono conseguire.

Papa Francesco nei suoi viaggi apostolici,  parlando dei carcerati, ha sottolineato più volte come «sia stato graziato dal Signore» per essere «fuori» e spesso, rivolgendosi ai reclusi, ha detto e lo ha ripetuto domenica scorsa durante il Giubileo dei carcerati: «Perché io sono fuori e voi dentro?». Come si può rispondere a questa domanda?

Penso che quando il Papa dice questo esprima la convinzione di fede che di fronte a Dio non vi sono mai meriti da accampare. Come dice san Paolo: «Che cosa possiedi che tu non l'abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l'avessi ricevuto?» (1Cor 4,8). Da ciò deriva la domanda stupita del Papa: «Perché io sono fuori e voi dentro?». Se sei consapevole di aver avuto certe possibilità che avresti potuto non avere, e di aver fatto certe scelte di vita diverse da quelle di chi è detenuto per un reato commesso che avresti potuto non fare, ne deduci che la tua condizione di «libero» è solo esclusivamente frutto della grazia divina e non di meriti personali.

Come ebbe a dire un ergastolano al magistrato che l’aveva condannato: «Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo» (cfr. Elvio Fassone, «Fine pena: ora», p.42).

Le nostre comunità cristiane come possono rispondere a ciò che ci chiede il Signore: «Ero carcerato e siete venuti a visitarmi?»

Anzitutto riconoscendo che in carcere vi è una comunità cristiana che si impegna a far vivere la libertà religiosa e l’appartenenza ecclesiale, l’accesso ai sacramenti, alla catechesi e al sostegno spirituale ai suoi fedeli sottoposti a provvedimenti penali che escludono la possibilità di condividere la vita delle proprie comunità di appartenenza. I credenti in Cristo dovrebbero, inoltre, impegnarsi sempre più in una riflessione che superi la modalità retributiva di concepire il rapporto tra colpa e pena per avvicinarsi maggiormente al senso evangelico della giustizia. In una prospettiva evangelica è impensabile pensare di produrre il bene con il male, mentre l’unica vera fecondità sta nel vincere il male con il bene. In questo senso tutto ciò che attiene a nuove forme di mediazione penale e di giustizia riconciliativa già operative nel campo minorile, ma pochissimo nel campo penale degli adulti, andrebbero conosciute, promosse e sostenute dalla comunità ecclesiale. È a partire da questa comune sensibilità che possono poi delinearsi specifiche figure di volontari carcerari, ben motivati e formati, chiamati a realizzare in modo sistematico la concreta visita ai carcerati.

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