Michele Pellegrino, cinquant'anni fa il cardinalato

Un anniversario importante che la comunità ecclesiale ricorda

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Michele Pellegrino, cinquant'anni fa il cardinalato

Io entrai arcivescovo a Torino nel 1965. L’anno dopo fui invitato a celebrare la festa di Santa Rita, la Santa degli impossibili. Confesso che per un anno o due non ebbi il coraggio di andarci perché temevo di avallare con la mia presenza qualche cosa che era difficile impedire ma che non volevo avallare perché sapevo come avvenivano le cose: la benedizione delle macchine fatta sul piazzale da un prete in cotta e stola, con il chierichetto che porta l’aspersorio dell’acqua santa e un altro che porta il vassoio per il soldi. Sapevo per esempio - cose che sentivo dire - di prostitute che andavano a confessarsi e a far la Comunione senza alcuna intenzione di cambiare mestiere. E mi dicevo: “se vado, cosa succede?”».

È il brano di una riflessione che Michele Pellegrino, arcivescovo di Torino (1965-1977) sviluppa sulla religiosità popolare. Cinquant’anni fa il 26 giugno 1967 Paolo VI crea i nuovi cardinali: tra essi il 64enne Pellegrino e il 47enne polacco Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Un mese dopo, il 29 luglio 1967, parte la nuova ripar­tizione del territorio diocesano in 24 zone pastorali che sostituiscono le 34 antiche vicarie foranee extraurbane, tracciate dall'arcivescovo Carlo Broglia dopo il Concilio di Trento.

C’è un particolare curioso raccontato da mons. Gabriele Mana, vescovo di Biella, ordinato sacerdote mezzo secolo fa: «Nel 1967 eravamo 22 ordinandi preti. Improvvisa arrivò la notizia che l’arcivescovo ci avrebbe ordinati, non il 29 giugno come era consuetudine, ma il 25 giugno, festa di san Massimo. Venimmo poi a sapere che il 29 giugno diventava cardinale e che aveva mantenuto il segreto pontificio anche con noi ordinandi». A fine giugno 1967 Pellegrino è impegnato a Roma in vari appuntamenti: il 26 giugno il Concistoro per 27 nuovi cardinali; il 28 Paolo VI inaugura nella basilica vaticana il monumento a Giovanni XXIII dello scultore Emilio Greco; il 29 Paolo VI apre l’Anno della fede 1967-68 per il XIX centenario della morte degli apostoli e martiri Pietro e Paolo.

Non c’è dubbio che Pellegrino arriva con la mentalità del docente universitario. Ma la realtà della diocesi torinese lo costringe a rivedere alcune delle sue posizioni. Per esempio sulla religiosità popolare e sulla festa di Santa Rita, il 22 maggio: «Nel santuario passano, vengono anche da lontano, non meno di diecimila persone. E perché io, vescovo, che ho come principale missione il servizio della Parola di Dio sto al di fuori di questa gente, non ne approfitto per prendere contatto, per portar loro una parola veramente evangelica? Allora ci sono andato e ho continuato ad andarci  perché mi sono accorto che c’è modo di purificare certe usanze e di correggere certe mentalità».
Cos’è la religiosità popolare? Risponde: «Una religiosità che trova cittadinanza in ceti e gruppi sociali di un livello culturale per lo più modesto, e non come risultato di una riflessione, di uno studio personale, o come esecuzione di norme dell’autorità, ma in quanto recepita in forza di una tradizione, spesso legata ad ambienti circoscritti nella quale entrano facilmente fattori non propriamente religiosi». Le forme di religiosità popolare, specie di tipo latino-meridionale, siano riconducibili a: pratiche magico-superstiziose, non di rado unite a riti non cristiani (fatture, malocchio e simili); accentuato culto alla Vergine e ai Santi, che trova la sua tipica espressione nelle feste patronali; pellegrinaggi ai santuari; culti e riti sacramentali interpretati e vissuti come legati ai grandi eventi della nascita, della fecondità, della morte; culti extra-liturgici, indirizzati a persone morte o ancora viventi a cui si attribuiscono particolari poteri. Una tendenza della religiosità popolare è l’attenzione spasmodica  allo straordinario e al miracoloso. Pellegrino invita a pensare «a tutte le apparizioni della Madonna di cui si parla, che vengono ampiamente diffuse in volantini di vario genere, rivelazioni private, messaggi». E questo scrive nel prezioso libretto «Il culto dei Santi. Attualità di Santa Rita da Cascia» pubblicato dalla Elle Di Ci di Leumann nel 1975.

Quando padre Pellegrino muore il 10 ottobre 1986, dopo aver ricevuto l'Unzione degli infermi dal successore cardinale Anastasio Alberto Ballestrero, mons. Franco  Peradotto, vicario generale e direttore de «La Voce del Popolo» firma uno splendido editoriale intitolato «Quegli occhi»: «Quegli occhi, componente vivacissima della personalità di Pellegrino, la più preziosa rimastagli durante la malattia, assieme alla disponibilità ad accettare l’immolazione con Cristo crocifisso, ora non gli appartengono più. Gli erano serviti per comunicare ogni giorno con la gente. Non gli sarebbero serviti per vedere Dio “faccia a faccia” nell’eternità. Li ha donati perché un’altra persona possa vedere. Ricordo la prima volta che mi sentii guardato da quegli occhi. Da poche settimane era in diocesi. Mi conosceva appena. Nei vari incontri, che seguivo come giornalista, lo sentivo ripetere che con lui il dialogo doveva essere sincero e leale. Chiedeva di segnalargli le cose che non andavano e chiedeva suggerimenti, consigli, proposte. Accettai la sfida. Una certa educazione seminaristica mi aveva portato a scambiare l'obbedienza con il ”si”, anche quando era opportuno mettere in evidenza un più complesso insieme di situazioni e valutazioni. Con non poco batticuore compilai l'elenco di una doz­zina di “osservazioni” non tutte positive per lui. Mi ascoltò con estrema attenzione; non mi interruppe fi­no al termine. Poi, osservando che avevo un appunto, disse: “Vuole ri­prendere daccapo ogni pun­to? Così ragioniamo insieme!”. Capii dai suoi occhi perché, fin dal primo giorno, avesse desiderato essere chiamato “padre”».

Per queste e altre ragioni sorprende che l’episcopato subalpino abbia avviato la causa di beatificazione per Ballestrero e non per Pellegrino, uomo che ha lottato molto per far trionfare la grazia nella sua vita. Se Ballestrero era «naturalmente» proclive alla santità, Pellegrino ha dovuto impegnarsi a emendare i suoi difetti, soprattutto il suo carattere brusco e insofferente. La sua forte spiritualità emerge anche dalla corrispondenza che viene via via pubblicata. A mio parere, non regge la considerazione che la diocesi di Torino sia incapace di assumersi l’onere e l’onore della causa e tanto meno la supposta divisione tra «pellegriniani» e anti. Oltre a quella di Ballestrero, attualmente sono quattro le cause per la beatificazione in corso per i torinesi: servo di Dio Giovanni Battista Pinardi, venerabile Adolfo Barberis, venerabile Silvio Dissegna, venerabile Maria degli Angeli (Giuseppa Margherita) Operti.   

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