I giovani e la fede, c'è fuoco sotto la brace

Una analisi del direttore del Centro Studi della diocesi e dello Sfop e per molti anni guida della Pastorale giovanile diocesana

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I giovani e la fede, c'è fuoco sotto la brace

La diocesi, fin dagli inizi dell’episcopato dell’Arcivescovo mons. Nosiglia, ha iniziato e sta terminando con l’Assemblea diocesana di giugno il percorso di ascolto e di coinvolgimento dei giovani verso una rinnovata pastorale giovanile. È proprio vero che quella dei giovani di oggi è una generazione incredula? Uscita dal recinto? O non è piuttosto una generazione che si trova fuori di casa, perché della casa-comunità cristiananon ha sentito l’attrazione?

I risultati delle recenti ricerche

Gli interrogativi trovano risposte nelle diverse ricerche che si sono susseguite dal 2010 a oggi. La prima di A. Matteo (del 2010), fin dal titolo «La prima generazione incredula» ha suscitato reazioni contrapposte. Tre anni dopo, nel 2013, il volume di tre autori, A. Castagnaro, G. Del Piaz, E. Biemmi, titola «Fuori dal recinto». Segue la ricerca di F. Garelli che afferma e pone un interrogativo: «Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?». Nel 2015 l’Istituto Toniolo mette a disposizione una ricerca qualitativa dal titolo «Dio a modo mio», a cura di R. Bechi e P. Bignardi.

Tutti questi contributi si occupano della religiosità dei giovani italiani (fra i 18 e i 34 anni) in rapporto a Dio, alla fede e all’istituzione Chiesa; all’interno di una società liquida segnata da trasformazioni epocali. Tutti, seppur da prospettive diverse, condividono il cambio dell’approccio dei giovani a Dio, alla fede e alla Chiesa. Declinano un mondo giovanile sospeso tra passato e futuro, in cui permangono alcune poche abitudini, pensieri, comportamenti, acquisiti dalla religiosità passata ma, nello stesso tempo, traspaiono esigenze inedite verso modelli di vita cristiana nuovi e maturi. Provo ad illustrare qualche dettaglio delle varie visioni.

Un Dio anonimo e impersonale

Bignardi, già presidente nazionale dell’Azione cattolica, annota che in genere Dio non è estraneo al mondo interiore dei giovani. È un Dio molto privato che essi percepiscono vicino, con cui dialogano o che pregano, quando sentono il bisogno. È un Dio anonimo, impersonale, che non prende il volto di Gesù. Per questo i millennials pregano a modo loro ma non vanno a messa; non capiscono il perché delle pratiche anche se quasi tutti hanno terminato il percorso dell’iniziazione cristiana di cui hanno un ricordo piuttosto negativo perché ritenuto simile alla scuola o sono stati costretti ad imparare cose che non capivano. Ciò nonostante, riferisce la Bignardi, a questo patrimonio attingono, pescando quello che serve in modo molto individualista.

Insomma, il filo rosso che lega le ricerche sulla loro percezione di Dio può essere duplice: da un lato si constata l’emergere nei giovani di una fede più personale e consapevole, insieme a una certa presa di distanza dall’istituzione Chiesa percepita come insignificante. E, dall’altro, si attesta che Dio non è assente dal loro mondo.

La sensibilità religiosa

La ricerca «Dio a modo mio» documenta un profilo spirituale dei giovani molto interessante e per niente scontato. Nella stragrande maggioranza essi dichiarano di credere in Dio; un Dio che non prende il volto di Gesù di Nazareth. Quello dei giovani è un Dio anonimo, un’entità astratta che tuttavia essi avvertono come vicina, capace di non far sentire mai soli quelli che credono in Lui. A questo Dio ci si può rivolgere in ogni momento, all’interno della propria coscienza: non c’è bisogno di Chiesa, né di riti per pregare. Basta raccogliersi in se stessi, pensare a Lui, parlare con le proprie parole, come dice una diciannovenne: «Io mi sento di vivere la mia fede come piace a me, nel senso che sono assolutamente certa che non sia necessario andare in chiesa tutte le domeniche per credere; è necessario il pensiero di un minuto e mezzo della giornata, mi basta il pensiero».

Ciò non toglie che, anche tra coloro che si dichiarano cristiani e cattolici, siano pochi quelli che frequentano la messa domenicale. È come se il percorso dell’iniziazione cristiana, che quasi tutti hanno frequentato per ricevere i sacramenti, non li avesse educati a considerare il valore di un’esperienza comunitaria, che è fatta anche di momenti comuni e di preghiera.

I diversi profili sulla fede

La ricerca della Bignardi, appena citata, indica quattro profili di giovani in rapporto alla fede. Il primo riguarda «atei e non credenti» («che non sono molti e sono divisi tra loro», precisa la ricercatrice) ed è caratterizzato da un distacco traumatico e da un riavvicinamento impossibile. Il secondo raccoglie «critici, in ricerca e agnostici», dove la pratica è assente, il distacco è stato di tipo intellettuale, il riavvicinamento è tuttora possibile. Il terzo profilo coglie gli «atei e non credenti», dove il riavvicinamento alla fede non è ricercato. Al quarto profilo appartengono i «cattolici convinti», dove i distacchi sono assenti e irrilevanti, il riavvicinamento già compiuto e non problematico.

Dai risultati delle storie di vita esaminate nella ricerca «Dio a modo mio» non sembra trovino credito luoghi comuni sui giovani che li ipotizzano come una generazione incredula o peggio, senza Dio e senza valori. La metafora della liquidità sembra non aver preso il sopravvento sulla loro concezione di fede e, quindi, tutto ciò che è giudicato sotto questa lente appare, spesso, come fuorviante.

Spiega la professoressa Bichi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: «La ricerca di Dio e della dimensione religiosa c’è anche oggi dentro i giovani anche se in forme diverse dal passato». Si tratta di forme assai eloquenti ma non di esclusione o del trascendente anche se non identificato nella relazione con il Dio di Gesù Cristo.

Una Chiesa che non è significativa

Più che la posizione di contrapposizione («Cristo sì, Chiesa no») espressa dai giovani della generazione sessantottina, l’odierna avverte di avere un legame assai poco significativo con la Chiesa e si chiede cosa c’entri con la propria fede, che è solitaria, individualista, anonima. Della Chiesa non comprendono i linguaggi, che ritengono superati e astratti. Alla comunità cristiana i giovani chiedono soprattutto delle relazioni, l’incontro con testimoni efficaci. I giovani che dimostrano qualche interesse per la Chiesa, infatti, sono quelli che, nella comunità cristiana, hanno incontrato, nel corso di esperienze personali o associazionistiche, in occasione di eventi, in circostanze particolari, persone adulte espressive. La Chiesa viene dunque coinvolta nello stesso atteggiamento di diffidenza che i giovani hanno nei confronti delle istituzioni e delle persone che le rappresentano. Anche il prete fa parte di questa inespressività ecclesiale: ad esso i giovani guardano con benevola indifferenza. Non riuscirebbero ad immaginare una Chiesa senza preti e, tuttavia, non ne capiscono la funzione. A meno che abbiano incontrato sacerdoti capaci di vicinanza, di attenzione, disponibilità a entrare in una relazione dialogica e personale. A questi atteggiamenti si sottrae Papa Francesco, verso il quale i giovani mostrano una grande ammirazione e di cui avvertono (paradossalmente, per essere al vertice dell’istituzione ecclesiale) il fascino, l’essere per loro riferimento affidabile.

La non incidenza pratica dell’iniziazione cristiana

I giovani delle ricerche dichiarano tutti di essere passati attraverso i percorsi d’iniziazione cristiana delle parrocchie. In merito i dati ci dicono che sia i percorsi centrati sulle questioni dottrinali, sia quelli più improntati alle relazioni non lasciano, in sostanza, traccia in loro; non riescono neppure a fare emergere in primo piano la figura di Gesù. La non incidenza pratica della formazione ricevuta negli anni dell’iniziazione cristiana sembra dunque evidente. I più ricordano con gioia l’oratorio, qualche figura di prete simpatico, più che i percorsi catechistici.

E la famiglia? I giovani rilevano che, agli inizi, ha un ruolo fondamentale, ma poi scompare, almeno secondo loro. «Essa è importante», rileva la Bichi, «come agenzia che socializza la religione come tradizione: Chiesa, messa, catechismo… anche se al suo interno ci sono alcune figure come la mamma e la nonna, che sono particolarmente rilevanti nella prima formazione nella fede dei giovani». Insomma: la fede che c’è, ma ha bisogno di crescere, o meglio, sarebbe necessario farla crescere. Chi si assumerà questo compito per le generazioni future?

La sfida per la Chiesa

Fa riflettere la risposta alla domanda «c’è qualche cosa di bello nel credere?». Per 142 giovani su 150, credenti o non credenti, credere è bello perché dà speranza, permette di non sentirsi mai soli, di avere un senso per la propria vita. È evidente che l’osservatore che assume come indice della vita cristiana l’andare a messa la domenica può obiettare che ‘queste cose le sapevamo già’. Chi è interessato però a cogliere le sfumature della coscienza giovanile, troverà in questa ricerca che Dio non è scomparso dall’orizzonte delle nuove generazioni, anche se il riferimento a Lui è molto più complesso e tortuoso. Tanti giovani non frequentano più la chiesa, ma Dio non è assente nel loro orizzonte esistenziale: questo rappresenta il punto di forza per una nuova comunicazione della fede.

La comunità cristiana può dunque trovare energie, domande di vita, provocazioni per rinnovare le forme del credere al passo con i tempi. Vi è un’immagine-sfida che mi pare possa interpretare bene la condizione religiosa dei giovani: quella della brace che è nascosta sotto la cenere. Chi saprà soffiare la cenere e rendere la brace di nuovo capace di ardere e di produrre luce e calore?

Giovani

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