Perchè la scuola italiana può avere una marcia in più

Insegnamento e formazione, lavoro e valore: parla Gianluca Segre, docente di storia e filosofia al collegio san Giuseppe di Torino 

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Perchè la scuola italiana può avere una marcia in più

In che modo si può incoraggiare e sostenere un giovane studente, liceale o universitario? Non esistono ricette confezionate, né tecniche con risultati garantiti. Si può, tuttavia, proporre un profilo delle qualità umane richieste, del character, così ben delineato dal prof. Giorgio Chiosso in un recente articolo su questo settimanale. In altri termini, occorre mettere in luce quegli aspetti che la metodologia dei test non è in grado di cogliere, poiché non quantificabili. Al tempo stesso reali e apprezzabili, come sanno un attento datore di lavoro, un docente o un allenatore.

In merito alla pretesa di ridurre tutto ad aspetti oggettivi e misurabili, ci soccorre l’umorismo della Szymborska in «Scrivere un curriculum»: «È necessario scrivere una domanda, e alla domanda allegare il curriculum. (...). Conta più chi ti conosce di chi conosci tu, i viaggi solo se all’estero. L’appartenenza a un che, ma senza perché. (…) Sorvola su cani, gatti e uccelli, cianfrusaglie del passato, amici e sogni. Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto».

Pochi, per tale profilo, i termini essenziali: persona, virtù, finalità. Senza i quali la scuola e l’università rischiano lo snaturamento, che si rovescerà poi nella freddezza utilitaristica di molti ambienti di lavoro. Gli stessi ambienti, però, che ormai da tempo, nei colloqui di lavoro, tendono a valorizzare anche le esperienze di volontariato, le virtù relazionali, lo spirito di collaborazione.

 Gli stessi studenti pensano di essere “definiti” dal voto e dal risultato. Per quanto esso abbia un gran peso, non potrà tuttavia sostituire sia la ricchezza delle relazioni umane, sia, nella formazione culturale, il valore intrinseco che possiedono le singole discipline. Certamente questo è uno degli aspetti meno facili da far comprendere, in una realtà dove sembrano prevalere i test Invalsi, quindi la funzionalità rispetto alla ricerca del vero, del bello e del buono. Si impone la domanda «a che serve»? Raramente emerge l’atteggiamento di chi sa gustare una poesia, un dipinto, un testo filosofico, il rigore di una dimostrazione; parlandone poi con competenza e passione.

In una recente conversazione con un gruppo di studenti, un giovane imprenditore torinese, che vive e lavora con successo negli Stati Uniti, ha messo in guardia dal sottovalutare le potenzialità della scuola superiore in Italia. Il liceo italiano, se non verrà totalmente sfigurato, riesce ancora a trasmettere una certa visione globale, una formazione di base sia umanistica sia scientifica. E’ una delle carte vincenti, che consentono agli italiani all’estero di essere ben considerati. E continuava: in un pranzo di lavoro non si parla di economia, ma di altro, arte, storia. Si impara a conoscersi, si consolidano le relazioni umane e la fiducia, e solo dopo si concludono affari. In conclusione, sottolineava la necessità di essere umili, per imparare da tutti e da tutto.

L’amministratore delegato di una importante società di informatica, in un incontro con universitari, ha riferito il giudizio di un imprenditore americano. Chi avrà notevoli possibilità di cavalcare la rapidissima innovazione tecnologica? Voi italiani: avete avuto il Rinascimento, siete creativi, le generazioni precedenti hanno risollevato la nazione dopo il conflitto mondiale. Incoraggiante. Anche perché propone uno sguardo non disincantato, o cinico.

Quale profilo, quindi, per il percorso di un giovane? Da un lato l’effettiva possibilità di un’istruzione che, con i noti limiti e carenze, non ha ancora abdicato alla formazione umanistica. Dall’altro, la formazione del carattere e delle qualità umane, che fa appello alla libertà e al desiderio di crescita. Tale impianto morale è fondato sulla dottrina classica delle virtù, che esprimono un orientamento abituale al bene, frutto di impegno personale sorretto da un progetto educativo. «Non è forse vero che anche per la vita la conoscenza del bene ha un gran peso, e che noi, se come arcieri abbiamo un bersaglio, siamo meglio in grado di raggiungere ciò che dobbiamo?» (Aristotele, «Etica Nicomachea», Libro primo).

L’etica è propriamente una conoscenza che coordina e conduce le attività particolari verso il fine. Concerne le condizioni della vita buona: quando fa, l’essere umano anche agisce, rendendosi così migliore o peggiore. In tale contesto si può parlare di etica del lavoro e delle professioni, una dimensione molto più ampia della “deontologia professionale”.  Il lavoro, in rapporto alla vita umana, si strutturerà allora come professione, cioè come modo stabile e socialmente riconosciuto di guadagnarsi la vita e di cooperare al bene comune.

Un grande orizzonte si apre, poi, quando si comprende che il lavoro può essere il luogo dell’incontro quotidiano con Dio. Come osserva S. Josemarìa Escrivà, nell’omelia «Amare il mondo appassionatamente»: «Lì dove sono gli uomini vostri fratelli, lì dove sono le vostre aspirazioni, il vostro lavoro, lì dove si riversa il vostro amore, quello è il posto del vostro quotidiano incontro con Cristo. E’ in mezzo alle cose più materiali della terra che ci dobbiamo santificare, servendo Dio e tutti gli uomini. (…) Dovete invece comprendere adesso, con una luce tutta nuova, che Dio vi chiama per servirlo nei compiti e attraverso i compiti civili, materiali, temporali della vita umana. In un laboratorio, nella sala operatoria di un ospedale, in una caserma, nella cattedra di un’università, in fabbrica, in officina, sui campi, nel focolare domestico e in tutto lo sconfinato panorama del lavoro, Dio ci aspetta ogni giorno. Sappiatelo bene: c’è un qualcosa di santo, di divino, nascosto nelle situazioni più comuni, qualcosa che tocca ad ognuno di voi scoprire».

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