Pubblica Amministrazione arriva la riforma

Mentre si discute dei dati Svimez sulla situazione del Meridione d'Italia il governo Renzi prosegue nel suo cammino di rinnovamento

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Pubblica Amministrazione arriva la riforma

Nelle stesse ore in cui si discuteva sull’allarme lanciato dalla Svimez circa le condizioni drammatiche in cui versa il Sud Italia, al Senato veniva approvata la legge di riforma della Pubblica amministrazione: Solo una coincidenza, ma simbolica, perché in molti sostengono – spesso a ragion veduta – che tanta parte dei mali del nostro Mezzogiorno sono dovuti – anche, sia ben inteso – ad una PA che si è contorta fino a diventare la burocrazia che tutto frena, controlla, impedisce e vincola (non sempre dentro criteri di legittimità), senza però mai decidere nell’interesse generale e a favor di cittadino.

Per rispondere a questo problema, in verità non solo meridionale, si è indirizzata la riforma appena approvata, non esente da critiche (a cominciare dal fatto, tutto politico però, che per tagliare il nastro del battesimo definitivo è stata necessaria la presenza in aula dell’opposizione che ha consentito il raggiungimento del numero legale, senza il quale il Decreto avrebbe subito i colpi avversi della minoranza interna del Pd), ma molto importante, come ha tenuto a sottolineare con fierezza la ministra Madia.

I cardini della riforma, fatta di una serie di particolari non del tutto secondari per la vita del cittadino(unica banca dati per la circolazione dell’auto, Pra; solo il 112 per le chiamate di emergenza; bollette e multe pagabili anche al telefono; trasparenza e accesso agli atti più facilitate; pin unico per l’accesso ai servizi pubblici; wifi obbligatorio per scuole e biblioteche; eccetera), consistono sostanzialmente in una corposa revisione del ruolo dei dirigenti, e in una serie di accorpamenti e riordino di enti e istituti (corpo delle guardie forestali; camere di commercio, prefetture, società partecipate) che dovrebbe consentire un sostanzioso risparmio per le casse dello Stato, oltre che un certo raziocinio nelle procedure decisionali.

Ma il nodo cruciale e proprio il primo. La parte decisiva: ruolo unico per i dirigenti, con incarichi per 4 anni (prolungabili massimo a 2), il loro operato viene valutato e se si ritiene vengono licenziati (per non perdere il posto posso richiedere di essere collocati a una mansione inferiore). Come dice in un’intervista l’ex ministro Sabino Cassese (luminare del Diritto amministrativo): “E’ importante che sia stato introdotto il principio della non inamovibilità. Il posto a vita non c’è più e deve essere meritato”. E’ in perfetta linea anche con quelle norme che danno anche al governo più potere per prendere decisioni quando la burocrazia (come nel caso delle grandi opere) rischia di frenare il cammino. Insomma: la responsabilizzazione dei dirigenti, come premessa per la buona amministrazione (vedi anche linea seguita per la “Buona scuola”). Ora: che tutto ciò faccia problema, in un Paese basato sul principio del “non mi compete…”, lo si può capire, ma che riceva gli strali ormai abusati dell’accusa di “renzismo”, di dittatura del governo o qualcosa di simile, appare davvero fuori luogo. Si è sempre sostenuto che in quest’Italia non si cambia nulla se non ci si assume le proprie responsabilità, se il merito non torna a essere un valore da premiare, se il buon operato non viene valutato e via dicendo, e ora che si introducono questi principi nella riforma (stento a chiamarla la madre di tutte le riforme, perché forse si poteva fare di più, e perché il termine spesso è abusato…), ebbene, si alzano giudizi critici? Non c’è coerenza.

Importante è invece l’osservazione che alcuni intellettuali (Rodotà, Settis, Montanari) fanno sul rischio che comporta aver introdotto ufficialmente il principio del silenzio-assenso non solo in contese tra amministrazioni e tra uffici e cittadino, ma soprattutto quando riguarda la gestione di beni culturali e ambientali. 90 giorni per il limite sono pochi, dicono, considerate le annose deficienze procedurali dei nostri uffici (locali o statali che siano). Si rischia così che richieste di ulteriore cementificazione, in un Paese già molto deturpato da uno scriteriato consumo del suolo, peggiorino la situazione. Obiezioni da prendere sul serio (senza perciò, sentirsi appellare “gufi”). Ma l’equilibrio delle due esigenze (accelerare le procedure dando tempi certi e tutelare i beni comuni da richieste indecenti) non può essere trovato vincolando fortemente le carriere (e quindi la premiazione del merito) dei dirigenti alla capacità di questi di rispondere efficacemente (e in maniera adeguata) alle richieste non lasciandosi trascinare dal meccanismo anonimo del silenzio-assenso? Sarà un’ingenuità, ma avanziamo la proposta.

D’altra parte tutto ancora si può migliorare, visto che occorreranno circa quindi decreti attuativi per rendere la legge norma vigente, praticata e performante della nostra architettura statuale (dalla base degli enti locali, al vertice dello Stato). Basta volerlo, e concordare, almeno per una volta, sui principi di base. E’ proprio così impossibile di questi tempi?

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