Giustizia e magistratura, ampio intervento di Balduzzi a Torino

Il piemontese Renato Balduzzi, membro del Consiglio Superiore della Magistratura, è intervenuto il 24 gennaio all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte d’Appello di Torino. Partendo dai problemi di fondo del sistema giudiziario, per arrivare alle linee d’azione che attualmente impegnano il CSM, ha affrontato le principali questioni al centro del processo riformatore che interessa la giustizia italiana. Ne riportiamo il testo integrale

Parole chiave: balduzzi (1), giustizia (15), riforme (14), magistratura (5)
Giustizia e magistratura, ampio intervento di Balduzzi a Torino

1. Il problema della credibilità presso i cittadini non è (oggi ndr.) riferibile soltanto alla magistratura, ma è proprio di qualunque istituzione e trova origine nell’evidente crisi dell’istituto della rappresentanza e nella conseguente difficoltà di coesione sociale: il non sentirsi rappresentati e il diffidare dei rappresentanti è una tra le caratteristiche eminenti dei tempi nostri (anche nel campo della magistratura, tra magistrati elettori e togati eletti nell’organo di autogoverno …) e si intreccia con un’altra caratteristica pure assai evidente, cioè la difficoltà di relazioni sociali integrate e convinte in un’epoca, come ha scritto un sociologo italiano, in cui sembra dominare la “produzione di senso istantaneizzato”. Porsi tale problema con riferimento alla magistratura è tuttavia ineludibile, in quanto la fiducia in essa costituisce il presupposto di qualunque convivenza civile. Ecco perché non è una stanca ripetizione di un rito formale quello che compiamo oggi: quegli esami di coscienza pubblici della comunità forense che sono le inaugurazioni degli anni giudiziari rappresentano il momento in cui le diverse componenti di tale comunità esternano il loro diuturno interrogarsi su come reagire alla crisi della giustizia, su come, per usare una parola necessariamente abusata, riformare la giustizia.
Certo, il rischio della disillusione e del disincanto scettico è forte, a fronte della consapevolezza della ripetizione delle medesime analisi e dei medesimi tentativi di soluzione.
In questi giorni, dovendomi preparare al prossimo Plenum dedicato all’avvio della stesura della Relazione sullo stato dell’amministrazione della giustizia (su cui tornerò in conclusione di questo mio intervento), sono andato a leggermi i resoconti di un memorabile dibattito svoltosi, alla fine di gennaio del 1969, al Senato della Repubblica, dal quale derivò appunto la mozione parlamentare su cui si fonda l’impegno del CSM di presentare la menzionata Relazione. Memorabile anche per la qualità degli interventi e degli intervenuti: si trattò di una discussione protratta per più sedute e nel corso della quale si sviluppò un confronto serrato tra il ministro in carica, Silvio Gava, e parlamentari come Giovanni Leone, Umberto Terracini, Giuseppe Bettiol, Gastone Nencioni, Alberto Trabucchi, Alfonso Tesauro, solo per menzionare i più noti, sotto la presidenza attenta ed ironica di Amintore Fanfani. È difficile rileggere quelle pagine senza avvertire qualche brivido, tanta è l’analogia tra le questioni sollevate allora e quelle che ci angustiano oggi: dall’esasperante lentezza dei procedimenti all’organizzazione degli uffici del pubblico ministero, dalle criticità del processo in Cassazione alle questioni relative ai rapporti con il pluralismo dei corpi di polizia giudiziaria e al loro coordinamento, dalla responsabilità civile del magistrato alle questioni connesse alla revisione delle piante organiche, alla contrapposizione tra l’approccio novellistico e la preferenza per riforme organiche. Ed è anche difficile non subire il fascino del commento che Umberto Terracini fece alla proposta del Consiglio superiore della magistratura, richiamata dal Ministro, di costituire una commissione per studiare il problema del giudice di pace e del cosiddetto giudice popolare: anche il Consiglio, chiosò Terracini, “ha prescelto questo solito cammino elusivo: una commissione che poi ad un certo momento si dissolverà, scomparirà senza che si sappia cosa abbia fatto, cosa abbia proposto e neanche se qualcosa abbia proposto”.
Eppure, nonostante questo retaggio storico, questo quasi sempiterno ritorno dell’identico o dell’affine, nonostante che – come ha detto ieri nel suo discorso di commiato in Cassazione il procuratore generale dott. Gianfranco Ciani – “i dati disponibili non forniscano elementi apprezzabili circa un concreto superamento della situazione di crisi in cui versa nel nostro Paese il sistema giustizia”, qualcosa si muove, sia a livello parlamentare e governativo, sia al livello dell’organizzazione giudiziaria, centrale e periferica. Ne è esempio (e mi piace ricordarlo da piemontese) la relazione che abbiamo appena ascoltato da parte del presidente Girolami, i cui esiti sono stati resi possibili grazie al lavoro caparbio e determinato da anni avviato da parte del presidente Barbuto e ora proposto come progetto di gestione e abbattimento dell’arretrato civile (attendendo l’analogo lavoro per quanto riguarda l’arretrato penale): un lavoro encomiabile anzitutto per il metodo, consistente nel sottoporre il lavoro degli uffici giudiziari a una sorta di rasoio lessicale e conoscitivo (dal censimento selettivo alla distinzione tra arretrato e giacenze) prima che organizzativo, il cui primo risultato consiste nel superamento della consunta querelle sulla cosiddetta produttività dei giudici italiani e nell’avere individuato come nodo cruciale quello della capacità di programmazione degli interventi sull’arretrato storico, da privilegiare rispetto alla rincorsa affannosa dello smaltimento delle pratiche più recenti.
Certo, la conoscenza del sistema giustizia è ancora imperfetta, tra i dati cosiddetti ministeriali e i dati provenienti dalle tante cancellerie le discrepanze sono ancora forti, prevalentemente a causa di ancora perfezionabili criteri di raccolta e di trattamento degli stessi. Certo, manca tuttora la capacità da parte dell’organo di autogoverno di elaborare e “validare” i dati prodotti in ambito ministeriale, così da porli a base solida delle proprie valutazioni e deliberazioni. Certo (richiamando una mia vita precedente), potremmo chiederci quando riusciremo ad avere nel settore giudiziario l’equivalente di ciò che in campo sanitario è costituito dal combinato disposto tra, da un lato, il Programma nazionale esiti messo a punto dal Ministero della Salute e dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali e, dall’altro, la definizione di affidabili standard ospedalieri (ciò impone, probabilmente, di superare la sterile contrapposizione tra i “carichi esigibili” e gli “standard minimi di rendimento”). Ma qualche cosa si sta muovendo, e di ciò si stanno accorgendo anche fuori dal nostro Paese.
2. Da quanto detto si ricava che la prima vera riforma consiste nel cambiamento conosciuto, voluto e attuato da parte di ciascun operatore e là dove ciascuno opera. Dichiarare le forme, i modi e i tempi del cambiamento ed accettare di essere verificati sugli impegni presi è il senso più profondo di questa giornata. Ecco perché avverto il dovere di rispondere a un’ipotetica domanda “E tu, CSM, che cosa fai?”. Vorrei dirvi non ciò che faremo, ma quello che stiamo facendo o che abbiamo già fatto in questi primi quattro mesi di consiliatura, approfittando di questo primo momento di dialogo e di confronto per sottoporvi, in ordine casuale, le nostre priorità. Sono noti, almeno tra gli addetti ai lavori, i pareri resi sui decreto-legge in tema di giustizia civile e sul disegno di legge in tema di responsabilità civile, oltre che la presa di posizione sulla tempistica della cessazione della possibilità di trattenimento in servizio oltre i settant’anni. Meno nota è l’attività che stiamo svolgendo su altri punti.
A) In primo luogo, stiamo ripensando la disciplina della destinazione dei magistrati a funzioni non giudiziarie e delle attività extragiudiziarie, con principale riferimento ai rapporti con le funzioni politiche e amministrative, per rafforzare la garanzia dell’immagine di autonoma indipendenza ed imparzialità della funzione giurisdizionale. Sulla necessità di rivedere complessivamente il rapporto tra magistratura e istituzioni politiche, sia attraverso una più precisa e coerente applicazione delle regole vigenti in tema di autorizzazione allo svolgimento di funzioni extragiudiziarie, in tema di collocamento fuori ruolo e di aspettativa per incarichi politici, sia attraverso l’elaborazione o la richiesta di nuove regole che possano dare al tempo stesso l’impressione e la realtà di una maggiore distanza spaziale e temporale tra, da un lato, l’attività giurisdizionale e il vissuto del magistrato e, dall’altro, l’attività politica e l’assunzione di responsabilità politico-amministrative, un ruolo decisivo è svolto dalla componente non togata del Csm, nella consapevolezza che, all’interno della più generale disaffezione verso le istituzioni, vasti strati dell’opinione pubblica individuano nell’opacità e nella almeno apparente contiguità tra determinati magistrati e la politica una delle ragioni più forti che alimentano tale disaffezione.
B) In secondo luogo e ferme restando le prerogative del CSM riconosciute dalla Costituzione, abbiamo avviato il ripensamento del rapporto con i Consigli giudiziari, nell’ottica di abbreviare i tempi e gli incombenti e di renderli più aderenti alle realtà locali, con il conseguente potenziamento delle risorse decentrate.
C) In terzo luogo, poiché l’esperienza fin qui maturata circa l’applicazione della disciplina del trasferimento di ufficio di cui all’art. 2 della legge sulle guarentigie (come modificato dall’art. 26, primo comma, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109) ha evidenziato una portata limitata dell’ambito di operatività della stessa norma, per l’inevitabile “conflitto” con l’istituto del trasferimento di ufficio in sede disciplinare, stiamo predisponendo una proposta di modifica legislativa che consenta l’introduzione di strumenti idonei ad attribuire al Consiglio un più efficace potere di intervento su situazioni oggettivamente pregiudizievoli della «fiducia dei cittadini verso la funzione giudiziaria e nella credibilità di essa», e ciò anche quando tali situazioni siano state determinate da condotta “colpevole” del magistrato, indipendentemente dalla configurabilità di un illecito disciplinare e dall’attivazione del relativo procedimento.
D) In quarto luogo, siamo consapevoli che, pur avendo la previsione dell’autonomia della Scuola superiore della magistratura sul piano contabile, giuridico, organizzativo e funzionale (“la Scuola ha competenza in via esclusiva in materia di aggiornamento e formazione dei magistrati”) notevolmente ridotto il ruolo del sistema di autogoverno in materia di formazione, rimane l’esigenza che il Consiglio faccia sentire la propria voce, attraverso le forme che la legislazione prevede (direttive per i MOT, linee guida sulla formazione permanente, delibere sulla formazione decentrata), circa il modello culturale di giustizia e di magistrato verso cui orientarsi. Nozioni come mediazione, conciliazione, giustizia riparativa richiedono ancora un investimento culturale e formativo, e in tal senso il CSM, nell’ambito delle proprie competenze e in un’ottica di necessaria interpretazione “adeguatrice” della normativa primaria rispetto all’art. 105 Cost.), non mancherà di individuare percorsi in questa direzione e ne verificherà l’attuazione da parte di tutti i soggetti coinvolti nella formazione centrale e in quella decentrata.
E) In quinto luogo, sulla magistratura onoraria, questo Consiglio superiore ha manifestato l’intenzione (per ora non è possibile dire di più) di avviare, condividendola con l’avvocatura, una ampia riflessione volta a rimuovere, sul versante della condizione personale e professionale degli operatori interessati, una situazione di incertezza e, sul versante invece dell’organizzazione giudiziaria, un deficit nella programmazione e nella gestione dell’attività ordinaria. Da qui, appunto, la necessità di interventi che si facciano carico di aspetti quali: le modalità di reclutamento e la questione relativa alla conferma dei magistrati onorari attualmente in servizio; le modalità di formazione; il tema delle incompatibilità; il sistema disciplinare.
F) In sesto luogo, sotto il profilo organizzativo interno, ma con immediate ricadute su chiunque abbia a che fare con l’organo di autogoverno, si situa il progetto di reingegnerizzazione del CSM, cioè un nuovo sistema informativo per la velocizzazione delle pratiche e per la gestione complessiva del governo della magistratura in tema di organizzazione, mobilità, carichi di lavoro (la realizzazione del nuovo sistema è avviata da alcune settimane), capace di garantire la piena interoperabilità con i sistemi informativi in funzione presso gli uffici giudiziari requirenti e giudicanti e l’interscambio informativo con i sistemi e registri informatici elaborati e gestiti dal Ministero della giustizia. Ciò consentirà di conoscere e di gestire al meglio l’organizzazione tabellare degli uffici giudiziari, con particolare attenzione alla comparazione fra gli obiettivi posti dai progetti tabellari ed annuali degli uffici ed i risultati ottenuti, anche in vista della valutazione delle performance ottenute dai dirigenti e dai magistrati con funzioni semidirettive; il fascicolo personale di ogni magistrato: il suo percorso di carriera, le attività svolte, le materie trattate, le valutazioni ottenute, il bagaglio formativo e di aggiornamento professionale e così via; le prestazioni di ogni singolo magistrato, poiché il nuovo sistema informativo ed informatico offrirà un supporto esperto al CSM per il completamento del modello del sistema di valutazione degli standard quantitativi di prestazione per “cluster” di magistrati comparabili fra loro, per tipologia del ruolo gestito, delle materia trattate, delle caratteristiche organizzative dell’ufficio e del contesto.
G) In settimo luogo, per quanto concerne il campo penale, il Consiglio ha già approvato all’unanimità, in sede di commissioni Terza e Sesta, la proposta di eliminazione del divieto di assegnazione di funzioni giudicanti monocratiche penali ai magistrati di prima nomina e ha valutato negativamente la sostanziale separazione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante, conseguenza dell’aver ancorato il passaggio delle funzioni al mutamento del distretto e non (come logica avrebbe consigliato) al livello circondariale. Oltre alle conseguenze negative legate a un ulteriore irrigidimento della mobilità, già fiaccata dalle radicate carenze di organico, si segnala il carattere paradossale della vicenda, proprio nel momento in cui sta crescendo, a livello di Consiglio d’Europa, l’attenzione verso il modello “italiano” di osmosi tra magistratura giudicante e requirente.
Tra le altre iniziative già assunte dalla consiliatura e che saranno operative nelle prossime settimane segnalo quella, avviata in Quinta Commissione, relativa alla revisione della normativa secondaria concernente il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, semplificando e rendendo più chiari i criteri e gli indicatori utilizzabili ai fini della valutazione attitudinale. Questo orientamento costituisce un capitolo di una preoccupazione più ampia (che in qualità di direttore dell’Ufficio studi del CSM ho avuto modo di comunicare ai magistrati addetti al medesimo sin dalla prima riunione) volta a rendere più chiare e meno prolisse le deliberazioni, a carattere normativo e non, del Consiglio superiore.
3. Vado a concludere. Ho chiesto di venire a Torino in questa prima inaugurazione della nuova consiliatura in omaggio al mio territorio. Un territorio, per quanto attiene all’organizzazione giudiziaria, non privo di criticità (tra l’altro, ha il più alto indice di scopertura di organico del Nord), ma che ha saputo fare propria e attuare la riforma della geografia giudiziaria che resta – lo dico non senza una punta di orgoglio, avendo fatto parte del Governo che ha attuato, caparbiamente, la delega legislativa in materia – una delle poche vere riforme di questi anni. Non credo di essere condizionato dall’affetto verso il mio territorio se dico che il CSM non potrà non seguire con attenzione un distretto che sta attuando in modo corretto una riforma che anche il CSM ha fortemente voluto nel corso della consiliatura precedente.
Gli impegni presi oggi sono verificabili, anche senza lasciar passare un anno. Vi chiedo (lo chiedo ai magistrati, ma anche agli avvocati, nonché al personale della comunità forense) di considerarmi ratione loci a disposizione e di non farmi mancare suggerimenti, critiche.
La stagione tumultuosa che stiamo attraversando, nella quale comunque qualcosa si muove, impone all’attuale consiliatura la responsabilità di aiutare il cambiamento e imprimergli una direzione virtuosa.
Ecco perché abbiamo voluto partire subito con la Relazione sullo stato dell’amministrazione della giustizia, tema sul quale la precedente consiliatura non riuscì a esprimersi (pur essendosi impegnata sul punto, come si può vedere proprio dall’intervento del rappresentante del CSM qui a Torino, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014) e che per noi costituisce la cornice nella quale inserire i temi cui ho poco fa accennato.
Ecco perché, anche, non possiamo accettare la deriva del Csm a “organo prevalentemente corporativo di amministrazione della carriera dei magistrati ordinari (…), una sorta di megaufficio personale gestito dai rappresentanti del personale medesimo (…), per forza di cose dominato dall’ansia del consenso e dalla tutela dell’interesse dei singoli piuttosto che dell’interesse dell’istituzione”, come si esprime la prefazione di Luciano Violante al recente volume “Quattro anni a Palazzo dei Marescialli” del presidente Nello Nappi. La sindacalizzazione impropria è rischio dal quale la stessa componente togata ha tutto l’interesse a prendere le distanze, posto che essa allontanerebbe la magistratura italiana dagli obiettivi di rinnovamento che sono largamente condivisi al suo interno.
Qualcosa si muove, come dimostrato anche dalla prontezza con cui si è delineata la discussione circa l’assetto organizzativo ottimale per contrastare la minaccia terroristica di matrice islamico-radicale.
E al tempo stesso c’è però qualcosa che deve restare fermo. Tornare ai classici può aiutarci in proposito. Segnalo in conclusione (permettetemi una piccola reminiscenza da costituzionalisti) due passaggi di un autorevole testo di inizio Novecento, il Commento allo Statuto del Regno di Francesco Racioppi e Ignazio Brunelli, dove (vol. III, pag. 491), dopo aver dato una preliminare definizione della nozione di indipendenza soggettiva del giudice come “la certezza di non soffrire offese pel coscienzioso adempimento del proprio ministero”, il Brunelli così prosegue: “Il giudice deve essere posto al coperto dai vantaggi così dagli svantaggi verso le Camere, verso i partiti, verso i potenti in genere; e in ispecie verso l’Esecutivo, che rappresentando a un tempo gli interessi politici della cosa pubblica e quelli egoistici di una maggioranza, per forza o per influenza è il più temibile di quanti possono avere opportunità o spinta ad insidiare la giustizia. Senza questo intimo sentimento di responsabilità verso la propria coscienza soltanto, e di sicurezza giuridica verso chiunque possa rimanere scontento od offeso per una imparziale sentenza, il giudice sarebbe dato in preda a una lotta continua fra il proprio dovere e il proprio interesse; fallirebbe al suo scopo, e la giustizia cesserebbe di essere la suprema regolatrice dell’umana convivenza, a cui tutti i deboli, tutti gli oppressi debbono poter ricorrere con la fiducia di trovare, nella forza del diritto, il diritto di respingere la forza di chiunque pretendesse schiacciarli”.
Enfasi? Nella forma, forse, ma non nella sostanza, come dimostrato dall’altro breve passaggio che vorrei menzionare (ibidem, pag. 508) quando, a proposito della legge sulle guarentigie del 1908, il Brunelli commenta: “Il concetto generale informatore della legge può dirsi essere questo: nessun funzionario dello Stato deve essere più indipendente del giudice, e nessuno più disciplinato”.
Meglio non saprei dire. Buon anno giudiziario alla magistratura piemontese e valdostana.

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