Appendino, l’impazienza della base

Il dibattito tra la base popolare dell'elettorato soprattutto dei quartiere e delle periferie e la sindaca del M5S

Parole chiave: torino (730), sindaco (16), amministrazione (20), politica (133), città (139), quartieri (3)
Appendino, l’impazienza della base

I comitati che sostennero la campagna elettorale di Chiara Appendino si dichiarano già delusi. Il 21 gennaio, respingendo le conclusioni di un sondaggio che pone «la sindaca» in testa alla classifica dei sindaci più amati in Italia, hanno tenuto il loro «processo» a porte aperte contro la Giunta Cinque Stelle, assente la Appendino, presente il vicesindaco Guido Montanari. Dalla requisitoria di gruppi, associazioni, movimenti spontanei è emerso scontento e molta impazienza rispetto a una gestione politico-amministrativa che viene accusata di non sapersi smarcare dall’era Fassino e del centro sinistra.

Chiamato a discolparsi durante l’assemblea ospitata dal Centro d’incontro di via Moretta, Montanari ha giocato la sua difesa chiamando in causa problemi di bilancio, un «scoperto» di 30 milioni di euro che la Giunta, è stato dichiarato, non si aspettava e con il quale ha dovuto fare i conti per far quadrare l’assestamento delle finanze municipali. Trenta milioni di euro, pari al 3% del Bilancio comunale.

Da domenica 19 giugno 2016, dal ballottaggio che portò Chiara Appendino a Palazzo Civico, sono trascorsi poco più di sette mesi. È un arco temporale che ad una parte degli elettori dei Cinque Stelle deve apparire enorme, se già vengono contestati ritardi nell’attuazione del programma. Ma di per sé, in politica, sette mesi sono pochi. La Appendino ha dunque un bel problema: una base impaziente, e un programma che esigerebbe molta pazienza, se vero che la nuova Amministrazione vuole rinnovare la politica, contrastare il degrado delle periferie, dare lavoro ai giovani, riformare i trasporti, le aziende municipalizzate, bloccare i centri commerciali...

L’irrequietezza di una fetta dei militanti grillini, seppure all’interno di un movimento composito e frastagliato come i Cinque Stelle, fa riflettere. Pone interrogativi di fondo sul rapporto tra politica ed elettori, tra partiti e base. Interroga sulla praticabilità stessa della politica nella società dei consumi, sull’esito dei messaggi emotivi, che cavalcano la parola d’ordine del «tutto e subito». Come se la politica fosse equiparabile ad una spesa tra i bancali del supermercato, con la speranza che sia sempre il giorno del paghi due e prendi tre.

Fu netto il consenso riscosso da Chiara Appendino alle urne (complice anche una legge elettorale che trasformò il ballottaggio di Torino in un bipolarismo spurio, tutti contro uno), pareva netto il consenso registrato dai sondaggi a inizio gennaio, è altrettanto netto il dissenso manifestato dalla base a fine gennaio, una dinamica molto emotiva ed instabile. L’episodio dovrebbe far riflettere sui percorsi di selezione della classe politica: bastano davvero il curriculum e la fedina penale pulita? Con quali garanze di tenuta nel tempo?

La vicenda di Torino, come quella nazionale, sta cominciando a mostrare – ma si sapeva da sempre - che la politica costruita sull’emozione dei sondaggi non regge alla prova del tempo. Il presente è volatile, non dà garanzie di futuro. E l’ombra del populismo se ne sta sempre dietro l’angolo, un esito naturalmente da evitare.

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