Si può e si deve comunicare, Chiara Giaccardi al Sermig

La sociologa dell'Università Cattolica ospite all'Arsenale della Pace per riflettere sui nuovi media

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Si può e si deve comunicare, Chiara Giaccardi al Sermig

 “Noi pensiamo che comunicare significhi dire qualcosa a qualcuno, ma comunicare vuol dire prima di tutto ascoltare.” con queste parole è cominciato lo scambio di riflessioni del 28 febbraio scorso tra i tanti giovani presenti all’Arsenale della Pace di Torino e Chiara Giaccardi, docente di Sociologia e Antropologia dei Media all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Non ci sarebbe potuta essere apertura più adeguata per una delle serate dell’Università del dialogo, lo spazio di formazione del Sermig attivo dal 2004 e dedicato alla riflessione collettiva sulle grandi sfide dell’esistenza di oggi, che coinvolgono in primis proprio i giovani. Spazio che ha ospitato figure competenti in tutti i campi della cultura per dialogare insieme e, attraverso l’ascolto e la comprensione di testimonianze diverse, arricchirsi reciprocamente.

 

La sfida della società odierna su cui si è riflettuto nell’incontro con la sociologa, intitolato a proposito È possibile…comunicare, è stata la relazione con i nuovi mezzi di comunicazione. Un ambiente in continua espansione, che agli occhi dei più sfiduciati sembra avere ormai preso il controllo delle nostre vite prevaricando sulla dimensione reale. Chiara Giaccardi però non concorda con la rigida distinzione e valutazione delle due dimensioni del reale e del virtuale: “Ciascuna ha dei limiti e delle possibilità: la sfida non è trovarne una vera e una falsa, ma riconoscere i limiti di entrambe le dimensioni e valorizzare le nuove possibilità da loro offerte.”

 

E le possibilità offerte dai nuovi media sono almeno tante quanti i rischi, se si studia il fenomeno senza preconcetti. Innanzitutto, dopo decenni di comunicazioni monodirezionali, i social hanno riportato la comunicazione al modello originale dello scambio, dove ognuno è emittente e ricevente allo stesso tempo, parla, ascolta, comprende e risponde a moltissime persone contemporaneamente. L’ascolto, sebbene fondamentale nella comunicazione, non è qualcosa a cui siamo abituati: “Siamo poco capaci ad ascoltare perché questo presuppone la capacità di stare in silenzio e il dare valore a ciò che l’altro ha da dire.”, spiega la Giaccardi. E proprio i social, con la loro modalità di condivisione e connessione continua, potrebbero essere un esercizio d’ascolto per chi ne fa uso. Certo anche qui, come nella vita reale, c’è il rischio di non ascoltare, o di ascoltare solo chi si esprime in maniera a noi congeniale, come in una sorta di “stanza degli echi”.

Dall’altro lato, però, una delle grandi ricchezze dei nuovi media è la possibilità di intessere relazioni con persone completamente diverse da sé stessi, che nella vita reale non avremmo mai incontrato e che possono, in un dialogo tra opposti, arricchire le nostre esperienze di vita e allargare le nostre prospettive. La ricchezza e il nuovo nascono dall’incontro, e i media danno opportunità di incontro che bisogna saper cogliere.”, afferma la sociologa.

 

Sta proprio qui la differenza tra un approccio positivo che permetta di vivere bene nella società dei media, e uno negativo che li demonizzi: nella capacità di scegliere, che nessuno può togliere ad ogni individuo, se lasciarsi fagocitare dalla logica dei media, oppure interagire con questo ambiente innovandolo e sfruttando al meglio le sue potenzialità. Ecco allora che si può basare la propria autostima e personalità sul numero di likes e di followers sui social, ma si possono anche usare gli stessi per apportare il proprio contributo senza temere il giudizio degli altri. Si può cadere nella “febbre della condivisione”, ma si può anche essere in grado di decidere quando si vuole condividere un momento con gli altri e quando si vuole essere presenti completamente, senza tecnologia al seguito. Si può credere alle cosiddette post-verità, le bufale del web, o si possono verificare vagliando la ricchezza di fonti online. Si può lasciare che la rete trasformi sé stessi in semplici aggregati di dati, estremo dell’individualismo, ma si può anche rimanere persone concrete, che utilizzano i nuovi mezzi con cognizione. “Sta a noi discernere, senza dire soltanto che una cosa è giusta o è sbagliata.” dichiara Chiara Giaccardi: un concetto apparentemente scontato, ma che rischiamo di perdere di vista nella corsa all’evoluzione tecnologica.

 

No quindi alla demonizzazione dei media, una facile via d’uscita per non addentrarsi in un terreno nuovo e complesso: l’errore sta nel pensare in modo deterministico, come se fosse la rete la causa dei mali della società. “Non è la rete che genera il cyberbullismo – dice decisa la sociologa - né i messaggi di odio verso gli altri, né l’individualismo”, tutti comportamenti che già sono insiti nella società e negli individui e sono causati dal clima inquinato dall’odio che respiriamo quotidianamente. La rete non crea, ma è da una parte lo specchio della società, dall’altra un veicolo di diffusione efficacissimo, che permette la condivisione immediata di messaggi positivi, ma anche di altri negativi: è fondamentale dunque non scaricare sulla rete le nostre responsabilità ma essere noi stessi più responsabili delle nostre azioni e parole.

 

Ma allora è possibile comunicare davvero con i nuovi media? È illuminante la risposta data da Chiara Giaccardi in chiusura dell’incontro: “Il possibile non è nelle nostre possibilità, il possibile è ciò che nasce da un nostro atteggiamento di disponibilità e quello che ci viene incontro.”

Una maggiore apertura verso la comprensione dei media e la consapevolezza nel loro uso può essere dunque la chiave perché nel futuro si trasformino in luoghi in cui aggregarsi per contribuire alla qualità della vita in termini di ambiente, relazioni, competenze. Tra le nostre mani ci sono dei mezzi dalle incredibili potenzialità, che offrono la possibilità reale di diventare un esempio concreto per migliorare la società in cui viviamo: sta a ciascuno scegliere l’uso che ne vuole fare, se rendersi succube della tecnologia o padroneggiarla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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