D'Avenia: "far parlare i giovani"

Alla vigilia dell'Agorà del sociale voluta da mons. Nosiglia per riflettere sul futuro di Torino e dare la parola ai giovani, La Voce e il Tempo ha intervistato lo scrittore palermitano: "I giovani chiedono santi come don Puglisi, poeti come Leopardi"

Parole chiave: giovani (205), lavoro (167), intervista (13), Agorà del sociale (5), Torino (730)
D'Avenia: "far parlare i giovani"

Ha imparato ad ascoltarli, i giovani, Alessandro D’Avenia, siciliano, quarant’anni nel 2017, docente e scrittore. E ascoltare è proprio quello che vuole l’Agorà che si svolge il 19 novembre. Con questa intervista è come avere D’Avenia tra i relatori dell’incontro. La sua esperienza di ascolto l’ha trasfusa anche nei libri che ha scritto: da «Bianca come il latte, rossa come il sangue», a «Ciò che inferno non è», a «Cose che nessuno sa» fino al nuovissimo «L’arte di essere fragili» (Mondadori). Il 5 dicembre, al Teatro Colosseo, a Torino, alle 21, sarà lui stesso a presentare quest’ultimo lavoro, in forma di racconto teatrale.

D’Avenia, quali sono ‘il problema’ e, nel medesimo tempo, il ‘punto di forza’ dei giovani (adolescenti e ventenni) di oggi?

Il punto di forza è che sono molto più rapidi, entrano in contatto con più lingue, con persone che la pensano in maniera totalmente diversa da loro, ma a causa di questo bruciano le tappe. Questo tipo di contatto con il mondo - non a caso parlo di «contatto», termine che riguarda molto i social - è più un contagio che un vero e proprio approfondimento sapiente della realtà. Si può essere riempiti totalmente di contatti ed emozioni, avere una vita che ha l’apparenza di una pienezza, ma a un certo punto, ritrovarsi in ritardo rispetto alla ricerca del senso. È come avere uno zaino pienissimo di oggetti senza che nessuno ci abbia spiegato che c’è una vetta bellissima da raggiungere. Il problema, dunque - e questo, sì che è a carico della generazione precedente - è la mancanza di una chiamata vocazionale alla vita, cioè il pensare che la vita sia un talento in quanto tale da spendere ‘alla grande’ per gli altri. Per fare questo occorre una pienezza di senso che fa parte di una ricerca personale, individuale, che spesso manca nel marasma di informazioni.

Nel suo ultimo libro lei parla di Leopardi. Può essere un compagno per la crescita dei giovani, lui che è stato descritto come il campione del pessimismo?

Avendo a che fare con i ragazzi tutti i giorni vedo che, raccontando Leopardi, leggendo le sue opere, non riducendolo a una formuletta psicologica, l’effetto che provoca è l’esatto opposto del pessimismo. Non sarà, allora, che il cuore e la testa dei ragazzi è capace di intercettare in quelle parole una ricerca indomita di felicità, pur non nascondendo le fragilità della vita? Infatti, noi siamo chiamati all’Assoluto, ma ci rendiamo conto che nella vita di tutti i giorni questo assoluto ci scappa sempre. Per cui dico: basta con il Leopardi «poeta del pessimismo», parliamo piuttosto del «poeta della malinconia». La malinconia, infatti, come insegnano i Maestri, è la reliquia dell’Assoluto nel cuore dell’uomo. Nei «Notturni», Leopardi cerca sempre la luce, non sono mai notturni e basta.

Nel suo blog, www.profduepuntozero.it, lei parla del coraggio di accogliere qualcosa di vero, di bello e di buono nella propria vita…

Se io entro in un ristorante voglio un piatto buono, se scelgo un amico voglio un amico sincero, se mi innamoro di una ragazza è perché ho visto una bella ragazza. Questo significa che noi, nella realtà, veniamo richiamati, calamitati, desideriamo queste tre cose: vero, bello e buono, che sono la strada che porta alla felicità. Il nostro cuore e la nostra testa sono capaci di intercettare questa dimensione valoriale che c’è nella realtà. Di quale coraggio c’è bisogno? Che una volta intercettata, le si dia spazio, la si faccia crescere, e questo è l’impegno della libertà umana. Certo, uno può anche tirarsi indietro, ma questo dipende da come ciascuno di noi vuole impegnare la propria vita.

E in tutto questo, che cosa c’entra la Chiesa?

Io ho scritto «Ciò che inferno non è» perché mi sono imbattuto nella storia di un professore che muore per le cose che dice. Quella è la Chiesa, la Chiesa di sempre, la Chiesa dei santi, delle persone che per Cristo, per il vero, per il bello e per il buono - che sono ciò che Cristo è venuto a difendere sulla Terra - danno la vita. Come sempre, le crisi mondiali sono crisi di santità: mancano persone che ci ricordino questa misura alta della vita che è impegno per la bellezza, per il vero e per il buono. 

Come, i giovani, percepiscono il bisogno del lavoro?

La generazione precedente, che aveva trovato lavoro nell’ambito delle cose che aveva studiato, è terrorizzata dal fatto che non è più così. E i primi a pagare questa novità sono i figli, che percepiscono il lavoro non come un ambito di possibile fioritura dei propri talenti, delle proprie inclinazioni e predisposizioni, ma come qualcosa da accaparrarsi quanto prima per avere un minimo di sicurezza. Il lavoro, in questo senso, non ha un respiro vocazionale, ma viene visto come una cosa di cui avere paura, di cui dire, almeno, «speriamo che mi vada bene». Si tratta di una sfida apertissima per i nostri tempi.

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Giovani

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