"La buona scuola" dopo la legge bisogna misurarsi con la realtà

Una riflessione sulla riforma della scuola. Sarà quella giusta per l'Italia del futuro?

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"La buona scuola" dopo la legge bisogna misurarsi con la realtà

La scuola italiana sarà posta nelle condizioni di compiere un salto di qualità con i provvedimenti presentati dal governo nei giorni scorsi? Naturalmente è quanto tutti si augurano perché ha ragione Matteo Renzi quando ricorda che il buon funzionamento della scuola costituisce un tassello prioritario per il futuro dell’Italia. Il documento varato dal Consiglio dei ministri è l’esito di una lunga e complessa elaborazione iniziata alcuni mesi fa con il documento noto come “La buona scuola”. Il proposito è quello di assicurare una scuola ricca di stimoli culturali, seria sul piano degli apprendimenti e popolata da docenti capaci di essere “educatori” e non solo professionisti competenti nella loro disciplina. La travatura che regge l’intero piano di riforma è costituita da tre fondamentali princìpi: rafforzare l’autonomia degli istituti potenziando i compiti dei capi istituti, assicurare alla scuola stabilità del personale (di qui un’assunzione di circa 100 mila docenti precari) e riconoscere che i costi sostenuti dalle famiglie (negli istituti statali come in quelli paritari) sono detraibili dal punto di vista fiscale.

La novità più rilevante riguarda la centralità assegnata all’autonomia delle scuole affidata alla capacità di guida svolto dal capo di istituto, rappresentato come il vero motore della vita scolastica (un preside-manager; qualcuno, meno benevolo, ha parlato di preside-padrone). Il dirigente di una scuola disporrà – se il provvedimento confermerà quanto proposto – di un larghissimo potere di intervento (con responsabilità conseguenti davvero non piccole) fino alla possibilità di scegliere in appositi albi regionali i docenti della sua scuola e di premiare direttamente gli insegnanti migliori.

Una scelta che induce a qualche interrogativo. Siamo sicuri che gli amplissimi poteri attribuiti al preside-manager rappresenti la scelta più idonea per rafforzare la scuola dell’autonomia? Chi garantisce che tutti gli 8 mila presidi italiani abbiano le qualità idonee a rendere più efficiente la scuola? Più in generale: abbiamo davvero bisogno di “un uomo solo al comando” oppure la scuola ha necessità di rafforzare la sua dimensione comunitaria anche (e forse soprattutto) attraverso numerosi canali partecipativi così da assumere la fisionomia di un luogo dove docenti e genitori ragionano insieme intorno all’educazione dei rispettivi allievi e figli? Su questi binari per molto tempo si è sviluppata la riflessione educativa, ora la strada intrapresa sembra diversa. La scelta compiuta dal governo – da tempo caldeggiata dalla potente Associazione Nazionale Presidi – appare ancora più discutibile se collocata nel contesto di altri provvedimenti in corso come quello che, secondo alcuni, vorrebbe l’assimilazione dei dirigenti scolastici ai dirigenti in servizio in altri comparti dell’Amministrazione dello Stato. Chi ci assicura un ottimo funzionario del Ministero degli Interni o dei Beni Culturali possa rapidamente diventare un preside in grado di selezionare i docenti più idonei a soddisfare le esigenze di una scuola?

Anche l’infornata di 100 mila docenti assunti in blocco presenta qualche criticità, non tanto per gli insegnanti precari da anni già in servizio e “collaudati”, bensì per quella quota di iscritti alle graduatorie – si parla di circa 25 mila persone – che da anni non ha più avuto contatti con l’insegnamento perché ha scelto un altro lavoro, per ragioni personali, ecc. Basterà il giudizio finale previsto dopo il primo anno di servizio a scremare chi ha le qualità per insegnare e chi invece non dispone purtroppo delle caratteristiche del buon docente? Quale preside se la sentirà di licenziare chi magari ha lasciato un altro lavoro per approfittare della nuova opportunità? Un positivo e notevole salto culturale è invece rappresentato da quella parte del disegno di legge che, dando attuazione a quanto previsto dalla legge sulla parità del 2000, prevede la possibilità (per ora solo per il segmento scolastico inferiore) di detrarre fiscalmente i costi scolastici. Il provvedimento è ancora alquanto timido e frutto – presumibilmente – di molte mediazioni interne al governo, ma segna tuttavia una prima inversione di tendenza dopo che per decenni e decenni l’istruzione non statale (impropriamente definita “privata”) è stata relegata, quasi unica in Europa, ai margini del sistema scolastico nazionale.

                                               

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