Attentato Gerusalemme: le ragioni profonde dei malanni di Terra Santa

Una analisi dopo l'attacco della scorsa settimana. Conoscere per comprendere una realtà e una storia complessa

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Attentato Gerusalemme: le ragioni profonde dei malanni di Terra Santa

Attribuire l'attacco all’Isis è “comodo” un po’ a tutti. In questo 2017 ricorderemo i primi 50 anni della vittoria israeliana nella “guerra dei 6 giorni”, quella decisiva che ha permesso l’occupazione della Cisgiordania e la conquista di Gerusalemme. È dai risultati di quella guerra che bisogna ricominciare a ragionare

Tutti se l’aspettavano, a quanto pare, questo attacco “dell’Isis” in Israele, e in particolare a Gerusalemme. Sono morti 4 giovani soldati israeliani, oltre al kamikaze palestinese che guidava il camion lanciato contro il gruppo. L’attentato è stato compiuto in un quartiere orientale della città, con una tecnica che ricorda quella già collaudata a Berlino e prima ancora a Nizza.

E ora tutti si confortano – si consolano, quasi – nell’idea che ormai la Terra Santa è davvero irraggiungibile per i nostri “pacifici” pellegrinaggi occidentali. Ci diciamo: anche lo Stato di Israele è diventato territorio penetrabile dalle bandiere nere dell’Isis; nemmeno Israele – con la sua esperienza, la sua attenzione, la sua aggressività – riesce a sottrarsi al “nemico”. In realtà gli standard di sicurezza in Israele non sono cambiati, e i luoghi normalmente frequentati dai pellegrini continuano a rimanere più “sicuri” dei boulevard e delle strade di Londra o Berlino. Ma tant’è, la sensazione che la Terra Santa sia un posto pericoloso rimane, e non può essere scalfita da nessuna testimonianza diretta di chi, ancora recentemente, ha trascorso a Gerusalemme i giorni di Capodanno. In realtà le reazioni psicologiche in Occidente, pur ampiamente comprensibili, non bastano a spiegare una situazione che è, in Israele e in Palestina, molto più complessa.
Se è scontato che la dinamica dell’attentato di domenica “copia” quanto già sperimentato a Berlino e Nizza, meno scontata è la girandola di attribuzioni e “rivendicazioni” venute subito dopo. Hamas, da Gaza, ha subito applaudito al gesto, inserendolo a forza nel contesto dell’Intifada che continua. Ma gli applausi di Hamas segnalano piuttosto l’attuale debolezza del movimento palestinese che, a Gaza e nelle altre città dell’interno in cui è al potere, governa con sempre maggiori difficoltà e un calo di consensi preoccupante. Affiora dunque la suggestione che l’attentato di domenica abbia più di un “padre” tra i movimenti dell’estremismo islamico; e si rafforza la convinzione di una certa sotterranea “concorrenza” per apparire, di fronte all’opinione mediatica occidentale, come l’autentico spauracchio, il “nemico” da temere davvero… Per altro la relativa debolezza di Hamas corrisponde a una debolezza forse anche maggiore dell’Olp e del suo capo Abu Mazen: problemi di successione al vertice, di credibilità e autorevolezza costringono fin troppo spesso al silenzio la voce dei Palestinesi.

E dalla parte israeliana del Muro le cose non vanno meglio. Non si può non notare la fretta, parallela a quella di Hamas, con cui il primo ministro israeliano Netanyahu ha suggerito di attribuire all’Isis la responsabilità e l’organizzazione dell’attentato. Anche per il premier, si direbbe, lo Stato islamico che riesce a superare le difese di Israele, rappresenta un’immagine più “comoda” che allontana di un altro po’ il momento in cui bisognerà riprendere in mano le vere questioni dello Stato: il confronto con la Palestina in vista di un autentico passo avanti verso la pacificazione; uno stop agli insediamenti ebraici nelle zone occupate in violazione di ogni accordo internazionale; e, naturalmente, un chiarimento, per quanto possibile, sullo status di Gerusalemme. In questi anni Netanyahu ha cercato di barcamenarsi continuando a parlare del “processo di pace” e guardandosi bene dal compiere passi significativi in direzione della sua attuazione, dalle risoluzioni Onu agli accordi di Oslo. Per altro il primo ministro consce bene la fragilità della propria posizione: il suo governo si regge con i voti decisivi dei partiti “religiosi”, i cui interessi non vanno affatto nella direzione della pace e sono orientati, piuttosto, a ricavare il massimo in termini di sussidi, elargizioni, privilegi, affari di sottogoverno.

Netanyahu si ritrova stretto tra “fuochi” molto diversi e tutti pericolosi, a cominciare dalla pressione dei fondamentalisti ebraici, per niente sensibili alle regole di democrazia e pluralismo, e che non mancano occasione per sollevare le questioni etiche più delicate, come la richiesta di non volere le donne negli stessi vagoni del tram di Gerusalemme o negli stessi bus su cui viaggiano loro, perché la presenza femminile turberebbe la loro concentrazione…
Poi ci sono i “coloni”, che dicono di volere “la grande Israele”, corrispondente all’intero territorio dei regni di Salomone. Per ogni insediamento nella Cisgiordania occupata il governo di Israele deve garantire una strada, i collegamenti ai servizi (acqua luce telefono ecc.), il controllo del territorio. Sempre sul “fronte interno” Netanyahu deve affrontare una nuova stagione di critiche, dovute al suo “stile di governo” troppo disinvolto. In questi anni di guerra sempre più infuocata Netanyahu è comunque riuscito a tener lontano da Israele le minacce più dirette, malgrado i contorcimenti di alcuni suoi alleati nella regione (Turchia in particolare).

Ci sono poi le (deboli) pressioni internazionali, di Europa, Stati Uniti, Nazioni Unite… Tutti sanno che, senza una soluzione alla questione israelo-palestinese, il mondo intero non potrà mai avere la coscienza pulita rispetto ai problemi del Medio Oriente. Ma su questo fronte il premier israeliano è riuscito a guadagnare tempo senza dover cambiare sostanzialmente le proprie posizioni. In realtà fino all’insediamento di Donald Trump e all’emergere delle reali opzioni americane su Israele e Medio Oriente la situazione è congelata (Anche se le ultime scelte di Obama, come l’astensione al voto che sanzionava ulteriori nuovi insediamenti, lasciano capire che comunque il rapporto con gli Stati Uniti non sarà facilissimo).
Chi è tornato con forza e limpida chiarezza a chiedere di sbloccare la situazione è Papa Francesco, nel discorso al Corpo Diplomatico: “La Santa Sede rinnova il suo pressante appello affinché riprenda il dialogo fra israeliani e palestinesi, perché si giunga ad una soluzione stabile e duratura che garantisca la pacifica coesistenza di due Stati all’interno di confini internazionalmente riconosciuti. Nessun conflitto può diventare un’abitudine dalla quale sembra quasi che non ci si riesca a separare. Israeliani e Palestinesi hanno bisogno di pace. Tutto il Medio Oriente ha urgente bisogno di pace!”.

Per questa serie di motivi, e per altri ancora, attribuire l’attentato di Gerusalemme all’Isis è “comodo” un po’ a tutti, appunto perché evita di riportare l’attenzione sulle ragioni profonde, e antiche, dei malanni di Terra Santa. In questo 2017 ricorderemo – a giugno – i primi 50 anni della vittoria israeliana nella “guerra dei 6 giorni”, quella decisiva che ha permesso l’occupazione della Cisgiordania e la conquista di Gerusalemme. È dai risultati di quella guerra che bisogna ricominciare a ragionare.

Fonte: Sir
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