Caporetto, una lezione che dura da cent'anni

24 ottobre, anniversario della terribile disfatta italiana durante la Prima Guerra Mondiale. L'Esercito combatteva, lo Stato si sfaldava. Pagine di storia da ricordare e raccontare ai giovani

Caporetto, una lezione che dura da cent'anni

Caporetto, 24 ottobre di cento anni fa, è diventata la metafora della sconfitta più cocente e tragica, quasi un tratto distintivo della storia italiana contemporanea. Caporetto fu uno dei più grandi traumi della nostra storia militare: 11.600 morti, 30 mila feriti, 350 mila sbandati, 300 mila prigionieri, 400 mila profughi civili. All'alba del 24 ottobre 1917 Luigi Cadorna, nella sede del Comando supremo di Udine, venne informato del pesante bombardamento sulla linea Plezzo-Tolmino. Fedele alle sue convinzioni, il generale la ritenne una simulazione per distogliere l'attenzione dal fronte carsico. Contemporaneamente, sul monte Krasij, a nord di Caporetto, si trovava la terza linea difensiva formata da alcuni battaglioni alpini tra cui quello comandato dal volontario interventista Carlo Emilio Gadda. Lui e i suoi uomini furono svegliati alle due dal mattino dai bombardamenti massicci che proseguirono fino all'alba. Non subendo però alcun attacco e non ricevendo alcun ordine, rimasero nelle loro posizioni, isolati e completamente avvolti nella nebbia. Verso le 12 videro alcuni soldati italiani inseguiti da quelli austro-germanici e, alle 15, udirono le esplosioni dei ponti sull'Isonzo. Capirono quindi di essere bloccati e attesero con rassegnazione l'attacco nemico.

I primi ordini giunsero dopo 24 ore, quando il Comando supremo venne informato che Caporetto era caduta e che gli austro-germanici erano riusciti ad avanzare a Saga e sul Kolovrat. Venne deciso l'abbandono di tutte le posizioni sulla riva sinistra dell'Isonzo. Gadda iniziò quindi a scendere lungo il crinale. In pochi minuti si rese conto che la situazione era veramente disperata: migliaia di soldati italiani cercavano di attraversare il fiume (privo di ponti) mentre i tedeschi li inseguivano su entrambe le rive. Molti decisero di gettare il fucile, arrendersi e farsi catturare dagli uomini guidati da Krauss. Nel frattempo Rommel ed il suo gruppo di soldati del Württenberg proseguirono l'avanzata sul Kolovrat arrivando con facilità fino ai pressi del Monte Matajur, la cima più alta delle Valli del Natisone. Il giorno seguente un'altra azione di aggiramento permise di catturare migliaia di soldati italiani, arresisi senza combattere, e alle 12 del 26 ottobre 1917 la montagna venne conquistata dai tedeschi. In due soli giorni avevano percorso 18 chilometri catturando 150 ufficiali, 9 mila soldati e perdendo appena 39 uomini.

La situazione ormai stava precipitando velocemente anche a livello politico: a Roma il presidente del Consiglio Paolo Boselli, dopo aver perso un voto di fiducia, si dimise. Poche ore dopo iniziarono a circolare le notizie di quanto stava succedendo nell'Alto Isonzo. La Seconda armata venne totalmente abbandonata dai propri ufficiali e migliaia di soldati si diressero senza alcun ordine verso la pianura friulana. Molti gettarono con sollievo le armi convinti che la guerra fosse terminata. Contemporaneamente, nelle strade riempite dai militari in rotta, si aggiunsero i primi civili friulani, costretti ad abbandonare le proprie case dall'avanzata austro-germanica.

Il 26 ottobre Cadorna cercò di nascondere la verità al Paese con dei bollettini ottimistici, ma ormai era chiaro: l'azione compiuta tra Plezzo e Tolmino da parte degli austro-germanici aveva portato ad una disfatta del fronte italiano. Gli stessi vertici, nonostante le palesi mancanze ed errori, si gettarono in una «corsa convulsa a scrollarsi di dosso ogni responsabilità della disfatta […] e mantenere così intatti il prestigio e l'onorabilità» (Ernesto Ragionieri, «Lo Stato liberale», in «Storia d'Italia Vol. 11», Einaudi, 2005). La colpa, secondo loro, era del disfattismo imperante all'interno del Regno.

Due giorni dopo venne diffuso in tutta Italia un nuovo bollettino, sempre firmato da Cadorna: «La mancata resistenza di reparti della Seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze armate austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte giulia» (Nicola Labanca, «Caporetto-Storia di una disfatta», Giunti, 1997). Queste gravi accuse segnarono definitivamente la fine della sua carriera ai vertici dell'esercito italiano. Il ‘caso Caporetto’, che per lungo tempo ha alimentato supposizioni, ipotesi anche fantasiose circa presenti complotti che avrebbero favorito gli attaccanti, nasceva già sin dalle prime mosse della battaglia.

Che la storia dei reparti arresi fosse una infame invenzione, ad uso e consumo del suo inventore, fu subito chiaro, tanto che lo stesso governo intervenne per censurare il comunicato del Generalissimo, che da lì a qualche giorno venne rimosso dal suo incarico. Una infame invenzione, costruita ad arte per celare le gravi responsabilità che il Comandante supremo aveva maturato nel corso della guerra e che adesso, nei convulsi giorni di Caporetto, venivano allo scoperto mentre si consumava la più tragica sciagura bellica che l’Italia avesse vissuto.

Su questo punto la storiografia è concorde. Paolo Gaspari, il valente storico-editore udinese che da anni indaga su Caporetto e dintorni, ha scritto pagine definitive sull’argomento e ha sottratto all’oblio storie di generosi ufficiali e soldati che seppero opporre valida resistenza all’avanzante esercito austro-tedesco, riscattando l’onore italiano che il Comandante supremo aveva vilipeso. Nella sconfitta di Caporetto, questo è storicamente accertato, non ci furono né viltà ne tradimenti della truppa, ma inettitudine, impreparazione, superficialità dei vertici militari. A cominciare dal Comandante supremo per passare alla cerchia ristretta che lo attorniava: Badoglio, Cavaciocchi, Montuori e Capello. La recente pubblicazione del saggio storico «Caporetto. 24 ottobre-12 novembre 1917: storia della più grande disfatta dell’esercito italiano» (Mondadori), di Arrigo Petacco e Marco Ferrari, suggerirebbe, inoltre, almeno un paio di risposte praticabili e molto poco retoriche: la critica della inevitabile disumanizzazione e mortalità di ogni guerra e l’importanza del disegno europeo pacifista e tollerante sorto proprio nel sangue e sulle macerie di queste due guerre mondiali ‘di massa’.

I due storici analizzano le cause militari del disastro di Caporetto, ma il loro punto di vista è molto originale, perché si sofferma sulle mutazioni avvenute nel paesaggio e sul ritrovamento e sulla catalogazione degli oggetti della vita quotidiana dei soldati, come a voler restituire una dignità umana e una memoria possibile a centinaia di migliaia di uomini che vissero la disumanizzazione massima anche per improvvisazione e insensibilità politica e militare (sul tema basti leggere «Un anno sull’Altipiano» di Emilio Lussu e rivedere il film «Uomini contro» di Francesco Rosi, tratto proprio dal romanzo-memoriale di Lussu, tra i principali scrittori della Prima guerra mondiale insieme a Gadda, Comisso, Alvaro, De Roberto, Stuparich e, ovviamente, Ungaretti).

Cosa rimane di questa ecatombe militare? Un custode della memoria di Kobarid (Caporetto in realtà si chiama Kobarid, e si trova in Slovenia, e anche questo sono in tanti a ignorarlo) raccoglie da anni oggetti riemersi da una terra che ha sepolto nel fango insanguinato migliaia di vite. Il suo nome è Bojan Rustia. Ecco come i due autori descrivono questi oggetti salvati dall’oblio: «Una scatoletta ancora intatta di alici piccanti prodotta dalla ditta Torrigiani di Sesto Fiorentino; una bottiglia Maggi contenente concentrato di brodo; un classico barattolo di pomodoro Cirio; un antipasto della vivandiera sempre in contenitore di metallo con pesci della Norvegia; vasetti in vetro di mostarda tedesca con impresso il motto Gott Mit Uns!; calamai di ogni tipo e di ogni nazione; lenti per occhiali italiani antiriverbero e antischegge degli alpini; pacchetti di sigarette; borse dell’acqua calda con la base in latta da attaccarsi al collo, di proprietà di un ufficiale facoltoso; una griglia per cuocere il pesce; una confezione ancora intatta di Ersatz Caffè».

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