Torino senza Mirafiori non sarebbe la stessa

Intervista a Claudio Chiarle, Segretario generale della Fim-Cisl Torino e Canavese dal 2008. Astigiano classe 1959 ha iniziato il suo impegno nel sindacato nel 1979 come delegato sindacale alla allora Fiat Avio

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Torino senza Mirafiori non sarebbe la stessa

Dal 2008 segretario generale a Torino negli anni della crisi industriale ha contribuito con gli accordi sindacali del 2001 e il Contratto collettivo specifico (Ccsl) Fca-Chn a rilanciare Mirafiori, «baluardo industriale, con Alena, senza il  quale Torino non sarebbe più la stessa». Con lui abbiamo  dialogato a tutto campo sulle problematiche del sindacato e della situazione occupazionale nel nostro territorio.

 

Partiamo dal congresso. Il 7 e l’8 febbraio si è celebrato il secondo congresso della Fim-Cisl Torino Canavese. Qual è lo stato di salute dell’organizzazione che guida?

Il congresso è l’occasione migliore per guardarsi allo specchio e capire a fondo la propria identità. In generale, si può dire che il sindacato ha avviato un percorso di cambiamento a partire dai primi anni novanta con la concertazione. Quel sistema di relazioni tra governo e parti sociali ha iniziato a mostrare i propri limiti dopo un decennio ed è stato spazzato via dalla «grande crisi», iniziata nel 2007 negli Stati Uniti d’America e tutt’ora in corso soprattutto nell’Unione Europea. Con la firma del contratto nazionale dei metalmeccanici anche da parte della Fiom lo scorso dicembre, si è ha sancita la sconfitta della sua linea sindacale perseguita dal 2001 e l’affermazione di un modello sindacale partecipativo e non antagonista. In Fiat sono stati raggiunti risultati  positivi  in  termini  produttivi  e  occupazionali. Su questi due accordi si misura il sindacato del futuro. In questi ultimi 10 anni, insomma, i metalmeccanici della Cisl hanno scelto di uscire da un approccio alle relazioni industriali ideologico e hanno optato per una strada pragmatica, che guardasse principalmente alla qualità dei contratti nazionali e aziendali

Con quale risultato?

Le conseguenze di questa scelta sono state molteplici. Innanzitutto i numeri ci consegnano iscritti in aumento: i tesserati alla Fim sono 11070, cresciuti di oltre 150 unità negli ultimi anni. In secondo luogo questo approccio ha spinto il sindacato a selezionare propri rappresentati sempre più qualificati e competenti, capaci di entrare con sempre maggiore sicurezza nel merito degli accordi. Infine, negli ultimi tre anni si è avviato un grosso ricambio della struttura dirigente e organizzativa della nostra federazione: dei  segretari e operatori sindacali più della metà hanno non più di tre anni di esperienza a tempo pieno nel sindacato ma una lunga esperienza da delegati sindacali.

Se non dovessero cambiare le cose, il sindacato a partire dalla prossima primavera, si appresta a vivere una campagna referendaria sull’abolizione dei voucher e sulla responsabilità solidale negli appalti. Qual è la vostra posizione?

Giungere al referendum su questi temi è la certificazione del fallimento della classe dirigente dei partiti, totalmente incapace di ascoltare le istanze sociali dei lavoratori e delle organizzazioni che li rappresentano. Ora bisognerebbe recuperare la via della mediazione ed intervenire con una legge in grado di correggere le storture che associazioni e sindacati denunciano da tempo. In particolar modo i voucher-lavoro vanno ricondotti nel loro alveo originario: strumento di pagamento di lavori accessori, ad esempio dalle ripetizioni in casa a piccoli lavori di pulizia. Bisogna restringerne l’uso ed evitare che vengano impiegati nel settore edile. In sostanza sui temi del lavoro riteniamo che le politiche del jobs act non abbiano modificato concretamente il mercato del lavoro. L’unica cosa che ha funzionato è stato l’incentivo della decontribuzione dei nuovi assunti per 3 anni. È evidente che questo non basta. La Fim rilancerà la sua proposta di uno scambio tra salario d’ingresso per i giovani e assunzione a tempo indeterminato, un fac-simile dell’apprendistato che va sgravato dagli orpelli burocratici e formativi.

Lei guida un sindacato  dei metalmeccanici in una delle città storicamente più operaie d’Italia, dove la presenza della Fiat ha rappresentato il motore di sviluppo di Torino per oltre un secolo. È ancora così?

La retorica postindustriale ha cercato di far credere che la nuova economia potesse fare a meno delle fabbriche manifatturiere. Ovviamente, nonostante le mutate condizioni, nel futuro di Torino c’è ancora la Fiat, con un ruolo e una dimensione diverse, ma pur sempre fattore determinante di innovazione e crescita. Non bisogna dimenticare che, ad esempio, lo stabilimento Maserati di Grugliasco è frutto di un investimento di 1 miliardo di euro del gruppo sull’area torinese realizzato circa 5 anni fa. Anche a Mirafiori è stato investito un miliardo di euro per dare vita al  «polo del lusso» che sta procedendo con successo.

Ciononostante alcuni indicatori come quelli demografici, reddituali e sui livelli di istruzione disegnano una città che arranca e che addirittura arretra.

Purtroppo è così. Torino è cresciuta sull’onda delle Olimpiadi ma l’avvento dei pentastellati sembra far spegnere la fiaccola post olimpica. Non si affrontano i temi infrastrutturali e non basta qualche variante urbanistica per mettere in moto processi virtuosi di crescita economica. Narrare un modello di decrescita felice, che si è trasformato in quello di una povertà infelice sia economica che sociale non è certo la condizione per rilanciare la città. La condizione giovanile è l’emblema del fallimento del sistema Torino, il cui grosso limite è stato quello di essere cresciuto attorno a uomini provenienti quasi esclusivamente dal mondo Fiat. La verità è che le classi dirigenti torinesi hanno rinunciato a definire e a realizzare un nuovo progetto complessivo di città e in questo vuoto di idee sullo sviluppo urbano si sono affermati egoismi e rabbia sociale, terreno fertile per demagogie e populismi.

Come si esce da questa situazione?

Al Congresso abbiamo proposto, preso atto della fine del Sistema Torino, che le maggiori personalità politiche, intellettuali, industriali e sociali creino un «Comitato Torino» che sia ambasciatore nel mondo  delle grandi potenzialità del nostro territorio. Attrarre investimenti, favorire l’insediamento di nuove imprese dovrà essere la sua missione.

Intanto sembra che l’economia locale stia rifiatando dopo anni di chiusure e cassa integrazione.

Nel secondo semestre del 2016  sono stati rilevati circa 17mila metalmeccanici coperti da diverse forme di ammortizzatori sociali, a fronte dei quasi 36mila del primo semestre 2016, in sostanza circa il 50% in meno nell’area metropolitana di Torino. Non siamo fuori dalla crisi, ma i segnali di ripresa si rafforzano se consideriamo un certo numero di accordi sui 18 turni e alcune aziende che richiedono prestazioni straordinarie, soprattutto nel settore dell’indotto automotive. Tutto ciò, insieme alla rinascita della Carrozzeria di Mirafiori e della sua filiera. Nel Canavese insieme a grandi situazioni di crisi dell’informatica e non solo, abbiamo una ripartenza dello stampaggio a caldo. Abbiamo la tenuta costante di alcuni settori, come l’aerospazio e la avio-motoristica, i cuscinetti, che hanno un indotto molto vasto e diffuso sul territorio; la ripresa del movimento terra, con l’accordo Hyundai per New Holland e la produzione di un nuovo veicolo industriale.

Insomma qualcosa si muove ma sembra non bastare…

L’emblema della condizione di stallo in cui versa la città è data da alcuni cantieri molto importanti che stentano a trovare una definizione e una partenza sicura. Su tutti spicca la questione della seconda linea della metropolitana. In una città intossicata da smog e polveri sottili dovrebbe essere una priorità e invece si fa fatica non dico ad avviare i cantieri, che sono sinonimo di occupazione e sviluppo, ma addirittura a definirne semplicemente il tracciato.

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